Nel nostro Paese, si parla soprattutto di sbarchi, esempio ultimo la nave Diciotti della Guardia costiera. In Italia, però, ci sono un milione e trecentomila nuovi italiani. Circa duecentomila, solo l’anno scorso. Non li vediamo o è più comodo non vederli?
Li vediamo senza dubbio, frequentano o hanno frequentato le scuole con i nostri figli, saranno sempre più presenti nelle professioni mano a mano che completeranno gli studi e si inseriranno nel mondo del lavoro. Nello sport già ne vediamo tanti. Sono processi inevitabili. Nella trasmissione per cui lavoro, nella scorsa stagione, ne abbiamo invitati diversi. E lo faremo ancora, perché è evidente che sono sottorappresentati. Quando si parla di immigrazione ne discutono solo italiani “bianchi”, mentre devono prendere la parola quei nuovi italiani che lei citava.
Emergenza, ormai non si fa che discutere di emergenza, secondo lei, i migranti sono davvero un problema? Sono tutte vittime?
L’emergenza, ci dicono i dati sugli sbarchi, non c’è più. Allora perché questo sembra l’unico tema in discussione ogni giorno? Agli italiani viene indicato un nemico, lo straniero, il nero, il diverso, e si crea il capro espiatorio di tutti i mali. Il meccanismo è evidente. Ma mi chiedo quale futuro ha una società così incattivita? Poi, certo, ci sono problemi da risolvere, e no, non sono tutte vittime. Ci saranno mascalzoni tra chi sbarca, come tra chi è già in Italia da vent’anni, del resto questo Paese convive con le mafie e la delinquenza da un bel pezzo. Vogliamo quartieri sicuri? Giusto. Allora diamo più mezzi alle forze di polizia. Prima dell’emergenza terrorismo, prima degli attentati, nel settore ordine pubblico i governi hanno soltanto tagliato. Per anni.
In una società dove tutto è stereotipato, i lavori svolti dagli extracomunitari e dai cittadini di origine straniera, sono quelli che gli italiani non vogliono fare, ma è appunto uno stereotipo. Ma molti nuovi italiani sono sempre più impegnati come imprenditori, chirurghi, ricercatori e anche nelle forze dell’ordine come Nina, la protagonista del suo noir. Riusciremo a far conoscere la realtà?
La realtà ha una sua forza, si imporrà comunque. Però certo dobbiamo raccontarla il più possibile. Mi preoccupa soltanto che il grido “emergenza”, continuo, incessante, finisca per sommergere tutto il resto. Nina, la protagonista del mio libro, fa di tutto per non essere incasellata, rifiuta gli stereotipi che le si appiccicano addosso solo perché è nera, mostra con i suoi comportamenti che le cose sono sempre più complesse e piene di sfumature di quanto crediamo. Se di fronte agli sbarchi dividiamo il mondo in due, bianco buono/nero cattivo, una divisione in cui si annidano pregiudizi e paure, alla fine restano solo gli strilli, nessuno è più interessato a capire.
Quando tre anni fa ha iniziato a costruire il personaggio di Nina, cosa l’ha spinta a decidere per una donna nera, figlia di una coppia mista?
Soprattutto alcuni articoli che avevo letto. Ne ricordo uno in cui, parlando di un romanzo di Lucarelli, si rifletteva proprio su questo mondo afroitaliano, così strettamente collegato al nostro passato coloniale e così poco raccontato. L’ho letto e fine. Poi, come spesso succede, certe riflessioni ritornano quando meno te lo aspetti. Pensando alla mia protagonista (sul fatto che sarebbe stata donna non avevo avuto dubbi), ho ripensato a quell’articolo. E così è nata Nina. Poi, un carabiniere mi ha raccontato la storia degli zaptiè, gli africani – somali, eritrei – arruolati appunto come carabinieri al tempo della colonizzazione italiana. Dopo la fine della guerra alcuni di loro hanno seguito le truppe italiane in Italia, dove hanno però ricoperto ruoli di secondo piano. Sono diventati furieri per lo più. Così è “nato” il nonno di Nina.
Ha mai avuto dubbi nel descrivere i sentimenti e i pensieri di una donna così diversa da lei?
All’inizio no, perché quando cominci a scrivere, e la storia con i suoi personaggi prende vita, pensi solo a quello. Poi, a ridosso della pubblicazione, mi sono posta la domanda: «Ho il diritto di parlare dei sentimenti di una giovane donna nera quando, evidentemente non sono nera (e neanche più giovane, ahimè)?». Ne ho parlato con la mia editor e lei, che è bravissima, mi ha messo in contatto con una scrittrice che, come Nina, è figlia di una coppia mista italo-africana. Le ho chiesto di dirmi se c’erano passaggi non verosimili e, soprattutto, se le sembrava che mi fossi appropriata di qualcosa che non era mio. Il tema dell’appropriazione è centrale nel dibattito fra neri, soprattutto in America. E, in fondo, non è proprio come quando, all’inizio, parlavamo dei media e dei bianchi che parlano al posto dei neri? Questa scrittrice ha letto il mio libro e, come dico sempre, mi ha dato la sua “benedizione”. Poi, mi tengo tanti dubbi, avevo il diritto? Qualcuno mi ha detto che la cosa bella di essere scrittore è proprio questa libertà di essere chi vuoi. Chi legge il libro si identifica con Nina, di qualunque colore sia. Chi vuole essere etichettato solo per il suo aspetto esteriore? Chi non è stato ferito e ha avuto bisogno di costruirsi una corazza? Chi non si è sentito solo e diverso almeno una volta nella vita?
Le indagini di investigatori neri, come Nina Mastrantonio, scritte da lei, o dell’ispettore Lucchesi, scritte da Gianni Simoni, ci aiuteranno a conoscere meglio la società in cui viviamo?
Non lo so, lo spero. Quello che vedo è che presentando il libro in giro si finisce a parlare di immigrazione senza strilli. So di non avere sempre davanti persone che la pensano come me, ma è un bene. Più ne parliamo senza urlare, meglio è.