Nata a Milano nel 1973, Katayoun Feyzgiu è un’imprenditrice di origine persiana. Per cinquant’anni, la sua famiglia ha venduto tappeti persiani alla Milano bene finché la crisi economica e la morte del padre nel 2008 le hanno fatto cambiare strada. Katayoun ha dovuto reinventarsi. Oggi gestisce un negozio a Como che vende stock fallimentari. Gli affari vanno a gonfie vele ma a volte si domanda cosa penserebbe suo padre, fiero commerciante di tappeti persiani, di questo nuovo business.

Conosco Katy (come tutti la chiamano) da quarant’anni. Ci siamo conosciute a scuola in prima elementare e ci siamo subito trovate: capelli corti alla maschiaccio, salopette e uncarattere forte, lei. Caparbia, col caschetto e gonna di jeans, io. Le feste di compleanno di Katy a saltare come forsennati da una pila di tappeti all’altra nel magazzino di suo padre sono uno dei più bei ricordi della mia infanzia. Ricordo anche i picnic al parco con la sua famiglia a mangiare riso speziato e bere tè. La storia della famiglia Feyzgiu da Teheran a Milano non solo offre uno spaccato di storia dell’immigrazione (prima dell’era dei porti chiusi), ma fa anche riflettere sulla complessità dell’identità delle nuove generazioni. Essendo cresciuta all’ombra della Madonnina, Katayoun spiega di essersi scontrata più contro l’antisemitismo che con il razzismo. La valanga di insulti che ha travolto Liliana Segre, del resto, non la stupisce: «L’antisemitismo, in Italia c’è sempre stato. Non credo stia aumentando. Semplicemente gli antisemiti e razzisti si sentono più tranquilli nell’esprimere e manifestare le loro becere opinioni, visto il clima politico compiacente».

Ti definiresti più italiana o persiana?

In realtà, né italiana, né persiana. Mi sento ebrea. È la mia identità più forte. E nella mia vita, mi sono scontrata molto più contro l’antisemitismo che con il razzismo.

«Sai quante volte fin da ragazza ho dovuto discutere per ore per far capire che anche se sono ebrea non condivido tutte le politiche del governo di Israele, non ce l’ho con tutti i palestinesi, non odio tutti i musulmani e che gli ebrei non hanno in mano il mondo della finanza internazionale. In confronto, il fatto di essere persiana non mi hai mai dato troppi problemi. Detto questo, anche nell’ambito del lavoro molto spesso ti rendi conto di una certa tolleranza di cortesia».

Cosa intendi dire?

«Con il tempo ho capito che l’Italia è un Paese profondamente razzista, ma che non sa di esserlo. Va tutto bene finché non ti avvicini – o non ti integri – troppo. Puoi essere anche nata qui, ma non riescono mai a farti sentire davvero a casa. L’idea di avere un’amica esotica affascina molti, ma si fermano lì, non vogliono andare più in là. E alla fine pensano sempre: “Ma quand’è che te ne torni a casa?”. La mia famiglia allargata è sparsa tra la Persia, l’Italia, Israele e l’America. Per anni abbiamo vissuto sospesi tra l’Italia e gli Stati Uniti, pensando che un giorno saremmo andati a vivere lì. Forse questo ha contribuito a non farmi sentire davvero a casa da nessuna parte. È stato solo quando ho conosciuto Andrea, mio marito, e abbiamo deciso di sposarci, che ho finalmente messo radici in Italia. E con me anche i miei genitori, che alla fine sono rimasti a Milano per stare vicino a me e mio fratello».

E i tuoi figli?

Loro si sentono 100% italiani. Li abbiamo mandati alla scuola ebraica perché sapessero chi sono e da dove vengono, ma si sentono completamente italiani. Mio marito, anche lui ebreo nato e cresciuto a Milano, è di origine tedesca e turca da parte di padre, ma si sente italiano. Mentre i miei figli sono un vero e proprio melting pot.

Qual è la storia della tua famglia?

«Mio padre, Ezat, è arrivato in Italia nel 1960 a soli 18 anni. Era il più giovane di tre fratelli, tutti commercianti di tappeti. Suo fratello era già in Italia e lui lo ha raggiunto. Il business andava molto bene: importavano tappeti dalla Persia e mio padre, non avendo ancora famiglia, viaggiava tra Milano e Teheran. C’erano pochissimi stranieri a Milano nel 1960, erano molti di più gli italiani che emigravano degli stranieri che arrivavano. Quando doveva rinnovare il permesso di soggiorno ogni sei mesi in prefettura c’erano solo lui e l’ufficiale di polizia. Nessuna coda, nessun disagio. Lui e i suoi fratelli però non avevano intenzione di stabilirsi In Italia. Erano qui solo per lavorare ma mandavano tutti i soldi a casa ed avevano costruito una palazzina a Teheran. In Italia si lavorava bene, ma la Persia negli anni Sessanta era un paradiso».

E poi?

«Poi mio padre ha conosciuto Farnaz, mia madre, si sono sposati nel 1972 e l’ha portata a vivere in Italia. Io sono nata nel 1973 e mio fratello Kian nel 1975. Ricordo che fino al 1979 passavamo metà anno a Teheran e l’altra metà a Milano. Poi nel 1979 è cambiato tutto da un giorno all’altro. È scoppiata la guerra e hanno cacciato lo Scià. Mio padre e i miei zii hanno perso tutto quello che avevano costruito a Teheran. Molti dei nostri amici sono riusciti a scappare ma chi, come i miei nonni materni, ha deciso di rimanere più a lungo per sistemare le cose, è rimasto fregato quando Khomeini ha chiuso le frontiere. I miei nonni sono rimasti bloccati a Teheran fino al 1989, quando sono finalmente riusciti a scappare in Italia e da lì in America».

Perché scappavano?

«Siamo ebrei. Il mio bisnonno era rabbino a Teheran. La comunità ebraica persiana è una delle più antiche al mondo. Non siamo migrati da altre parti del mondo come altre comunità ebraiche, abbiamo vissuto in Persia dai tempi della Babilonia. Prima della rivoluzione islamica non avevamo mai avuto alcun problema. Vivevamo tranquilli. Ma dopo l’avvento di Khomeini ci hanno braccato e siamo stati esiliati dalla nostra terra. Io è dal 1979 che non torno in Persia. Mio padre dal 1979 al 1981 ha aiutato una trentina di ragazzi giovanissimi  (ebrei e non) a scappare dalla Persia, per raggiungere i famigliari in America, in Francia o in Germania. Ricordo che li ospitava in magazzino a Milano e li aiutava con i documenti per l’espatrio».

Noi alla fine siamo stati fortunate, perché la guerra non l’abbiamo vissuta in prima persona, era lontana. Altri amici che sono arrivati a Milano dopo il 1979, e tutti i ragazzi che mio padre ha aiutato a scappare, loro sì che sono stati traumatizzati dalle bombe e dalle persecuzioni.

Come è stato crescere a Milano?

«L’idea dei miei genitori era stata sempre di tornare in Persia perciò ci hanno mandato alla scuola internazionale, dove c’erano anche i figli di tante altre famiglie persiane oltre che bambini di tutte le nazionalità. Sono cresciuta in un ambiente molto internazionale. A casa parlavamo farsi. O meglio, i miei ci parlavano in farsi e io e mio fratello gli rispondevamo in italiano. Difatti, il mio farsi fa pietà. Mia madre ha sempre mantenuto viva la nostra cultura. Festeggiavamo tre capodanni all’anno: quello italiano, quello ebraico e quello persiano (chiamato Nowruz) in marzo. La gente ci prendeva per pazzi a festeggiare il Capodanno in marzo! Il mio essere persiana però l’ho sempre vissuto in seconda persona: alla fine sono nata a Milano ed è da quarant’anni che non torno in Persia».

Perché hai smesso di vendere tappeti?

«Con l’arrivo dell’euro e di IKEA le cose sono cambiate. Oggi, a Como, vendiamo di tutto: dagli intimi al giardinaggio, dalle cose da cucina all’abbigliamento di marca. E da noi passano di tutti: dalle colf alle signore. Il business va bene ma a volte mi domando che cosa penserebbe mio padre, fiero commerciante di tappeti persiani, di quello che facciamo oggi». 

Foto: Mansour Kiaei / Unsplash