In concorso all’80esima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, e vincitore del Leone d’argento alla regia, Matteo Garrone in conferenza stampa ha presentato Io Capitano come il racconto dell’Odissea contemporanea dei migranti. Ma più che con Omero il confronto che viene in mente è con La vita è bella.

Ad accomunare i due film è l’idea di partenza: trovare un modo inedito ed efficace di raccontare qualcosa che lo spettatore conosce nella sua portata storica ma sul quale è difficile gettare lo sguardo perché si tratta di guardare l’abisso. Si può descrivere cosa accade in un campo di concentramento senza mostrare la ferocia? Sì, ma ne uscirà un racconto nel racconto, il cui destinatario è un bambino a cui deve essere resa sopportabile l’esperienza. Si può far vedere allo spettatore occidentale che cos’è il viaggio dei migranti verso Europa, Libia compresa? Sì, riprendendo l’archetipo del viaggio dell’eroe, un eroe maschio di appena sedici anni, cosa che permetterà di escludere dal raggio della telecamera ciò che non si vuole o non si può raccontare.

I limiti della sopportabilità di Io Capitano

Io Capitano è la storia del viaggio da Dakar alle coste della Sicilia di due giovani migranti, Seydou e Moussa. Per scelta stilistica e ideologica il regista assume il punto di vista di Seydou e, quando si tratta di imbastire il racconto, sceglie di misurarsi il meno possibile con l’inenarrabile. La morte è più una costante minaccia che una realtà, ha le sembianze di un mucchio indistinto di corpi in un angolo dell’inquadratura. Quando sfiora Seydou è quella di una donna (anziana) nella traversata del deserto del Sahara: una morte che viene immediatamente trasfigurata in una visione. Le torture – si sta comunque parlando di Libia – vengono mostrate in due scene, e non uccidono l’eroe ma gli lasciano addosso una vistosa (ma sopportabile) cicatrice al viso. Tutto in Io Capitano è arduo ma sopportabile, perché lo deve essere sia per l’eroe che deve compiere il suo destino – prima ritrovare il cugino e poi raggiungere l’Europa – sia per lo spettatore, che esce dalla sala con un’idea più chiara di cosa voglia dire fare quel viaggio per i migranti, senza per questo sentirsi troppo chiamato in discussione.

Perché vederlo

Una volta circoscritti i limiti di Io Capitano, ci si può concentrare sui motivi per cui vale la pena vedere il film. Prima tra tutti è l’interpretazione di Seydou Sarr, che a Venezia con il ruolo di Seydou ha vinto il Premio Marcello Mastroianni. Deciso a dare la maggior credibilità possibile al suo film, Matteo Garrone ha fatto i casting in Senegal. E per il ruolo principale (e anche per il suo coprotagonista) la scelta di Henri-Didier Njikam, responsabile casting del film, è ricaduta su un esordiente che recita con gli occhi. Ora ridenti, ora nostalgici, ora angosciati, ora pieni di determinazione nel finale.

La ricerca della credibilità è uno degli obiettivi di Matteo Garrone e la cosa traspare. Anche se, come detto, l’insopportabile viene lasciato fuori dall’inquadratura, si vede tutto il resto. Dal racconto delle costanti rapine più o meno istituzionalizzate a cui sono soggetti i migranti lungo il tragitto, a quello del nascondiglio più sicuro per i loro soldi alla considerazione che hanno i libici per i neri, ogni elemento è frutto di una ricerca durata un paio di anni e che per la scrittura si è avvalsa di consulenti che hanno vissuto quelle esperienze. Così come Roberto Benigni e Vincenzo Cerami avevano richiesto la collaborazione del Centro di Documentazione Ebraica di Milano.

Il senso di un’operazione del genere d’altra parte è trovare un modo di raccontare al pubblico più largo possibile cosa può succedere durante il viaggio verso l’Europa, in modo che nessuno possa dire che non sapeva. Sta a chi ne accompagna la visione parlare anche di ciò che la telecamera di Matteo Garrone non ha inquadrato. A partire dalle donne, protagoniste del flusso da molti anni insieme ai minori.

La recensione è stata pubblicata sul sito di Gariwo.