Li abbiamo glorificati, incensati, idolatrati. In tempi di necessità, medici e infermieri hanno formato un unico corpo salvifico per l’umanità. Erano gli eroi che si sacrificavano in prima linea mentre noi li incitavamo dalle nostre trincee dorate. Non si è guardato al colore della pelle, alla religione, al capo scoperto o velato. Abbiamo accolto a braccia aperte professionisti giunti in nostro soccorso da ogni parte del mondo. Per qualche mese, le differenze etniche sono passate in secondo piano, lasciando il campo a un confortante senso di unità.
La stessa impressione l’ha avuta il corpo di infermieri stranieri in Italia. Per una volta si sono sentiti apprezzati, necessari e accolti ovunque. Richiesti dai propri colleghi, amati dai pazienti. Quando la paura di morire è tanta, non ci si prende il lusso di storcere la bocca davanti all’infermiere dalla pelle scura. Eppure, questa patina di bontà nasconde una realtà ben più amara. Si è detto tante volte che il virus era democratico, ma sbagliavamo: lo è stato solamente l’indice del contagio.
Rosa Melgarejo, 58 anni, peruviana, da 30 in Italia, presidente del Gruppo Infermieri del mondo, ci ha mandato una lettera che racconta i retroscena della pandemia, le difficoltà dei professionisti stranieri, e l’abbandono da parte delle istituzioni.
Se è vero che la situazione emergenziale ha suscitato coesione e apprezzamento da parte di colleghi e pazienti, è altrettanto vero che le istituzioni ostentano una perpetrata cecità nei loro confronti. Gli infermieri stranieri in Italia non hanno modo di accedere ai concorsi pubblici se non dopo aver ottenuto la cittadinanza, le lauree conseguite all’estero non sempre vengono riconosciute, e molte volte sono destinati ad essere infermieri di serie B per tutta la vita. Rosa Melgarejo ci tiene a sottolineare che la professione è una, e uno è l’obiettivo: salvare vite. E di vite durante il Covid-19 gli infermieri stranieri ne hanno salvate innumerevoli.
Non avendo accesso al settore pubblico, coprono in maggioranza i settori laterali della sanità italiana. Sono coloro che fanno assistenza domiciliare sul territorio, coloro che assistono i nostri anziani nelle Rsa, coloro che accompagnano i malati terminali nelle strutture private, coloro che ci curano nelle cliniche riabilitative.
Sono stati, in sintesi, quelli più colpiti dalla pandemia. Quelli che in questa battaglia sono stati mandati in prima linea armati di una fionda, abbandonati nelle Rsa lombarde senza la minima tutela. «Io ho paura di morire», questa è la frase ricorrente delle telefonate che Rosa Melgarejo riceveva dai suoi colleghi durante la fase acuta dell’emergenza.
La struttura ci fornisce una mascherina ogni tre giorni, ma ci ha chiesto di non indossarla per non creare allarmismo è quanto riportava un’infermiera straniera in una Rsa lombarda, nei primi giorni della pandemia.
Sono stati tutti eroi e le difficoltà si sono viste sia nel pubblico che nel privato, ma alcuni professionisti sono stati più soli di altri. I tamponi al personale si sono fatti attendere, nelle strutture private li stanno facendo solo adesso e molti continuano a risultare positivi, tantissimi scoprono tramite il test sierologico di averlo avuto, pur rimanendo sempre in servizio. Molti sono stati contagiati, alcuni sono morti senza poter riabbracciare i propri cari.
Loro che sono stati i primi ad essere esposti al virus, i professionisti che hanno vissuto sulla propria pelle il dramma del Covid-19 in strutture devastate dai contagi, o in strutture che pur di dichiararsi Covid free non hanno effettuato tamponi né garantito la sicurezza dei propri dipendenti, ora chiedono di essere trattati con giustizia.
Durante la pandemia tutto il settore degli infermieri è stato legato da un unico cordone ombelicale, ma le differenze con i colleghi italiani sono ancora lì, evidenti. NRW ha già raccontato la storia di Rosa Melgarejo Ora però il Gruppo Infermieri del Mondo non si batte solo perché basti il titolo, e non sia necessaria la cittadinanza, per accedere ai concorsi pubblici. Ora vogliono quel grazie mancato che non è ancora arrivato.
Chiedono una divisa unica, perché è la divisa a identificare il mestiere, non la nazionalità. Organizzano convegni e corsi di formazione per dare la possibilità agli infermieri stranieri di essere sempre aggiornati, e non lavorando nel settore pubblico non è una cosa scontata. Nel 2019 hanno indetto la Giornata dell’infermiere, coinvolgendo l’assessore alla Sanità e altre figure istituzionali. Quest’anno avevano in programma una videoconferenza mondiale che è stata rimandata a causa del Covid-19.
La speranza è che un passo alla volta gli italiani comincino a riconoscere il valore di chi quotidianamente si sacrifica per curarci, che il colore della pelle non sia più un tratto distintivo per un professionista.
Vogliono, in fin dei conti, avere gli stessi diritti, le stesse tutele dei loro colleghi da cui li distingue solo la cittadinanza, di certo non la passione né le competenze. Perché, conclude Melgarejo, «dopo aver lottato per tutti voi, essere dimenticati ci fa un po’ male». E ora si aspettano quel grazie mancato che non è mai arrivato.
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