Il primo che ha accettato di sottoporsi al nostro questionario è stato Giorgio Silli, quarant’anni, appena eletto deputato e responsabile nazionale Immigrazione di Forza Italia. Forte della sua esperienza di ex assessore all’Immigrazione del comune di Prato, indipendentemente dalle sue opinioni, ha preso la sufficienza. Un po’ scherziamo, ma non troppo.
Radici: Che cos’è per lei l’integrazione?
Silli: L’integrazione ha luogo solo quando si riesce ad armonizzare i nuovi arrivati con la società che li accoglie. Per fare questo, però, non devono pesare sui cittadini autoctoni e non possono esserci numeri di arrivi troppo alti.
Radici: Cosa sa dei nuovi italiani?
Silli: Come assessore all’Immigrazione a Prato, ho assistito al giuramento per la cittadinanza italiana di molti stranieri: numerosi erano commossi, piangevano perché era un traguardo finalmente raggiunto da chi si sentiva profondamente italiano. Altri, però, sono arrivati alla cittadinanza nonostante avessero difficoltà anche a leggere il giuramento, per una scarsa conoscenza della lingua italiana. Non sono favorevole allo Ius soli, ma sono convinto della necessità di cambiare la legge sulla cittadinanza. Nonostante sia stata aggiornata nel 1992, il quadro della legge è stata creato nel 1934. Ad esempio io penso che si debbano favorire gli immigrati che nel nostro Paese stanno aprendo imprese, anche piccole, che creano ricchezza e pagano regolarmente le tasse. Sarebbe più semplice valutare la concessione della cittadinanza agli immigrati economici se arrivano su richiesta delle imprese, in base alle necessità della nostra economia. A coloro che scappano dalle guerre va data invece solidarietà. Tornando ai nuovi italiani, bisogna dire che la richiesta di cittadinanza da parte degli immigrati, si basa anche sulle leggi dei Paesi di provenienza. Per i latinoamericani, ad esempio, chiedere la cittadinanza italiana non significa recidere i legami con i loro luoghi di origine, perché hanno una legislazione che concede la doppia cittadinanza. Per i cinesi, invece, prendere la cittadinanza italiana significa perderla nella Repubblica Popolare Cinese, che non ammette la doppia cittadinanza e persino requisisce ogni bene che i cinesi possano possedere in Cina. Sarà difficile che la Repubblica Popolare Cinese cambi la sua legge in futuro, perché perderebbe molte rimesse economiche che molti cinesi mandano dall’estero.
Radici: Può dirci che lavori e studi fanno gli stranieri che sono integrati in Italia?
Silli: Lavorano e studiano. La maggior parte è laureata con ottimi risultati. Sono le seconde generazioni, che escono dallo stereotipo dei loro genitori dell’immigrato costretto a lavori umili. Già nel 2010, in un sondaggio commissionato dal comune di Prato, si leggeva che l’integrazione passava attraverso una buona formazione culturale e che chi non la possedeva aveva problemi di inserimento, pur essendo diventato cittadino italiano. Ovviamente, nessuno di noi ha la verità in tasca, ma penso che la cultura di origine possa influenzare la loro integrazione, soprattutto per quanto riguarda la formazione religiosa.
Radici: Ha mai pensato che l’Italia avrà in un futuro non troppo lontano una classe dirigente di origine straniera?
Silli: Sì, ne sono cosciente. Basta osservare ciò che accade in molti Paesi europei. In Belgio già il 35% della popolazione è di religione musulmana. Certo ho il timore di una scristianizzazione dell’Europa in un futuro prossimo, anche per ragioni demografiche. Per quanto riguarda l’Italia, vorrei che i cittadini italiani di origine straniera non fossero considerati corpi estranei, ma italiani e basta. Perciò è il momento di andare oltre alle associazioni di imprenditori delle varie comunità, come ad esempio fanno i cinesi. Nel momento in cui si crea un’impresa in Italia, le tutele e le leggi sono uguali per tutti e si va avanti insieme per il bene del Paese.