L’arte non rivoluziona la società. Con le canzoni, è possibile aiutare le persone a maturare consapevolezza e fare piccoli passi verso il cambiamento, ma la rivoluzione sociale avviene attraverso iniziative della politica.

Gato Barbieri, Argentina, musicista

Gabriele Romagnoli, cinquantotto anni, bolognese, giornalista e scrittore. Negli occhi ha il mondo per aver vissuto a Torino, Beirut, Il Cairo, Pechino e ora New York. Nell’87 ha scritto il primo libro per il progetto Under 25 di Pier Vittorio Tondelli. Poi non si è più fermato. Ultimo romanzo Non ci sono santi per Mondadori. Per la televisione ha partecipato alle sceneggiature di Uno bianca e Distretto di polizia. Ha scritto su La Stampa dove da poco è tornato a collaborare, ha diretto GQ e Rai Sport.

Gabriele Romagnoli, secondo le stime dell’Onu nei prossimi 30 anni 7 milioni e mezzo di africani cercheranno di arrivare in Europa. C’è chi dice “invasione”. Come si risponde a questo sentimento di paura?

Si potrebbe rispondere con la logica, facendo notare che l’Europa ha oltre 700 milioni di abitanti, presto 800 e pensare che l’arrivo di un 2% rappresenti una “invasione” non ha senso. Ma la paura non segue la logica, è appunto un “sentimento”, una percezione non razionale e come tale non curabile con la matematica. Occorre ridurre questa sensazione accorciando la distanza: inserendo chi arriva in tutti i possibili tessuti connettivi del Paese, avvicinandoli e non emarginandoli, mostrando che possono partecipare e che in realtà questo vogliono, partecipare, non sopraffare o approfittare.

L’accoglienza sempre, come dicono il Papa e la Chiesa, è praticabile? Basta essere “buoni”?

In condizioni di emergenza più che “praticabile”, l’accoglienza è necessaria. O perché dirsi “cristiani”, anche in senso laico? Esistono anche leggi al riguardo. Essere “buoni” sembra diventata una colpa, più ancora che una debolezza. Io credo invece che l’uomo abbia bisogno della sovrastruttura del “dover essere” per correggere il suo “essere” che è naturalmente, animalisticamente, egoista per tendere non solo alla sopravvivenza, ma ad attuarla nelle migliori condizioni possibili a discapito del simile. Quindi essere buoni è un primo, necessario passo. Poi: essere giusti. Essere generosi. Essere umani evoluti.

L’Europa litiga da anni su questi temi. Dire che “se ne deve occupare” è davvero diventato di destra?

Uh… che categoria desueta. I problemi si affrontano non da destra o da sinistra, ma dall’interno, con l’intelligenza per trovare soluzioni e uscirne. Non bisogna lasciarsi etichettare, né spaventarsi per le etichette che ci si vede appioppati. Ragionare, ragionare, ragionare, piuttosto.

In Italia c’è un dibattito divisivo: migranti tutti vittime o solo un problema. Siamo diventati razzisti? Molto razzisti?

Si diventa quel che si è. Non tutti gli italiani sono razzisti, una parte di loro sì. E non sono curabile: spostano il bersaglio. Quelli che oggi ce l’hanno con i migranti qualche anno fa ce l’avevano con chi veniva dal Sud. Ieri secessionisti, oggi sovranisti. È un calcolo a spostare il mirino del (ri)sentimento. Ma attenzione: anche tra chi si dichiara progressista e tollerante spesso alberga una natura identica e ancor più infida perché occulta. In realtà ogni sentimento è trasversale. Per fortuna, spesso, la pratica contraddice la teoria, nel bene più che nel male. O la specie umana sarebbe estinta da secoli.

L’immagine del piccolo Alyan annegato su una spiaggia ha fatto il giro dei media del mondo. È una immagine che fa riflettere o è diventata parte dello spettacolo?

La società dello spettacolo, specialmente ai tempi di Internet, ha le sue leggi. Il tempo di digestione di una tragedia, quello che la muta in farsa, è breve. Non occorre che ritorni, come diceva Marx, basta che resti sullo schermo. Ma tutto è negli occhi di chi guarda. Qualcuno continuerà a vedere un dramma, altri si dichiareranno annoiati, ne faranno un meme, ci scherzeranno su. Non decide l’immagine, ma la coscienza dello spettatore.

Secondo l’Istat ci sono 1 milione 200 nuovi italiani: chirurghi, imprenditori, ricercatori, eppure invisibili… Ha scritto recentemente su La Stampa che «tra vent’anni, forse soltanto dieci, i citofoni sembreranno il registro ingressi delle Nazioni Unite». Si fa finta di non vederli, un alibi per non occuparsene?

Non vedere i citofoni è una impresa ardua, ma c’è chi riesce. Avevo un prozio a Parigi. Tra tanti cognomi francesi, il suo italiano spiccava. Trent’anni dopo sono andato a vedere la casa dove viveva: c’era un cognome francese tra cinesi, africani, mediorientali. E ho pensato che un tempo il migrante era il mio parente, scappato dal fascismo e che a Parigi trovò lavoro e moglie. E una nuova vita. In Italia non tornò mai più: non si fidava. È diventato una persona rispettabile in Francia, come tanti africani e asiatici là e qua. Scappati da dittature che a volte non conosciamo ma riconosciamo, in senso politico.

I nuovi italiani che vincono nello sport o eccellono nello spettacolo vengono osannati. Siamo rimasti alla Capanna dello zio Tom, lo schiavo che ci piace solo se sta al suo posto e non disturba?

Come ha detto quel calciatore, Özil? Se gioco bene sono tedesco, se gioco male sono un immigrato turco. Tutta la carriera di Balotelli è stata condivisa dal Paese nella cui Nazionale giocava per i novanta minuti in cui segnò due gol alla Germania e per i novanta successivi. Poi è tornato nero. Nella pallavolo siamo grandi grazie a un cognome russo e a un altro cubano. Ma c’è una generazione che cresce pensando sia la normalità, che tifa per squadre multinazionali e multirazziali. E indietro non si torna.

La letteratura, il teatro, il cinema, si sono sempre occupati di migrazioni e migranti. Gli intellettuali, gli scrittori, che ruolo possono avere in questo dibattito?

Decisivo. Anche se per una errata percezione. Mi spiego. Si è ormai convinti che la realtà riproduca la finzione (letteraria e cinematografica). Che i ragazzi di Scampia copino Gomorra, anziché averla ispirata. Se una banda tortura una vittima si dice che “sembrava un film, Arancia meccanica”, le cui scene di violenza derivavano da fatti di cronaca. Raccontare in forma artistica la migrazione può farla vedere e percepire in maniera differente. E soprattutto gli artisti non rispondono o non dovrebbero rispondere a finalità politiche o economiche, quindi liberi di diffondere quello in cui credono. Usare questa libertà, per favore.

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