Nell’editoriale del 16 aprile, il direttore di NRW aveva polemizzato sulle intenzioni dei fautori di una legge che regolarizzi i migranti che lavorano nei campi e (forse) anche qualche migliaia di badanti, perché ancora una volta il dibattito sulla tematica migratoria resta confinato alle emergenze, ignorando il futuro dei professionisti emergenti, qualificati, poco e male valorizzati. In “Ritorno al passato, si riprogetta la partenza, ma si polemizza sui clandestini” si sottolinea che tutta la retorica sulle vittime del caporalato ha come principale obiettivo quello di riattivare la filiera agricola. Mario Giro era intervenuto per spiegare il valore di questo provvedimento che secondo lui rappresenta un’opportunità politica sia su un piano etico che su quello economico. Oggi interviene Leonardo Palmisano, sociologo e scrittore, che illustra come andrebbe articolata la proposta. 

Il dibattito sull’immigrazione, in Italia, paga sempre un tributo alla normativa esistente, che vincola il soggiorno degli stranieri ad un lavoro.

È per questo che ogni volta che viene prospettato un provvedimento che allarghi il diritto di residenza si è costretti a procedere con una regolarizzazione o con una sanatoria.

È un’abitudine che viene da lontano. La prima legge sull’immigrazione, la legge Martelli, procedette ad una sanatoria che fotografò la presenza straniera in Italia e il mix tra italiani e stranieri che si era creato nel mercato del lavoro. Da allora, quasi ciclicamente, numerose sono state le sanatorie e centinaia di migliaia di stranieri hanno potuto fruire di un permesso regolare.

La proposta

Questa volta, però, la proposta avanzata dalla ministra Bellanova e da altri risente dell’emergenza Covid. Le imprese agricole potrebbero, il condizionale è obbligatorio, avere problemi a reperire manodopera stagionale dentro e fuori Italia. Questo perché siamo ancora in una fase critica e le frontiere sono e forse resteranno legittimamente chiuse. Da qui la proposta di regolarizzare alcune centinaia di migliaia di braccianti già presenti sul suolo italiano e già inseriti, praticamente a nero, in agricoltura.

La proposta, in sé, non è sbagliata. In fondo, di fronte al rischio di un fermo illogico nel settore, la regolarizzazione produce innalzamento produttivo e innalzamento dei livelli contrattuali. A patto, però, che questo non produca deroghe alla legge contro il caporalato e che non si trasformi in lavoro nero mascherato.

La regolarizzazione deve ridurre la distanza salariale tra stranieri e italiani, consentendo ai primi di uscire dalle baraccopoli.

Un aumento dei salari e un accompagnamento alla ricerca di alloggi sani sono i prerequisiti per consentire alla manodopera straniera di migliorare la propria esistenza in Italia.

Se alla regolarizzazione non seguiranno provvedimenti ed iniziative in queste direzioni, ci si limiterà purtroppo a fotografare l’esistente, a ratificare una condizione di fatto ed a consegnare questa manodopera, queste braccia, alla mera volontà datoriale.

Questo ridurrebbe l’efficacia della regolarizzazione, perché a parità di condizioni salariali tra regolari ed irregolari, si potrebbe produrre un effetto di competizione al ribasso – indotto dai caporali – dove vincerebbe l’abbattimento ulteriore dei salari e l’aggravio delle condizioni di vita nelle baraccopoli.

I tempi della regolarizzazione

La regolarizzazione va dunque articolata con una prospettiva più ampia che tenga conto della necessità di verificare, mediante gli ispettorati del lavoro ed i sindacati, la regolarità delle procedure di assunzione. Per fare questo serve tempo, purtroppo. Il tempo che si è perso negli anni non può essere recuperato in poche settimane. Le Regioni ed i Comuni avrebbero dovuto attrezzare alloggi diversi dalle baracche, ma non lo hanno fatto su larga scala. Lo Stato avrebbe dovuto attivare un piano casa nazionale per questi lavoratori, di concerto con gli Enti Locali.

L’assenza di queste politiche non può affrontata in tempi brevi. È auspicabile perciò che l’eventuale regolarizzazione preveda l’adesione del lavoratore ad un sistema nazionale di inserimento abitativo sostenuto in una prima fase anche dalle imprese e che, a fine stagione e/o a fine emergenza, si proceda ad individuare, per chi non avrà ancora casa, un dispositivo pubblico/privato, anche a rotazione, di accesso ad un’abitazione.

Potrebbe essere un bel colpo assestato al caporalato ed a quei piccoli e grandi consorzi criminali che hanno inserito le baraccopoli dei braccianti nella mappa dei loro possedimenti e dei loro mercati. In buona sostanza, si tratta di irrobustire progressivamente la gamma dei diritti da concedere non limitandosi ad una regolarizzazione che risulterebbe inefficace.

Foto: Ajigah Harrison/Unsplash