Eravamo ancora armati di una clava, quando iniziammo a muoverci per il mondo, ad essere migranti, a cercare un rifugio più accogliente. Migliaia – se non milioni di anni dopo – metà del mondo continua a cercare di andare in un altro posto, spesso solo più sicuro. E buona parte dell’altra metà continua a non volerli attorno alla propria casa e costruisce muri sempre più grandi. Carlotta Sami, Portavoce per l’Italia di UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, ha scritto Rifugiati, pubblicato da HarperCollins, per raccontare chi sono davvero i richiedenti asilo. Smontando pregiudizi e luoghi comuni di chi li vorrebbe «aiutare a casa loro», una frase talmente stantia che nasconde solo la volontà di non fare un bel niente. Pronunciata da chi spesso scorda che il loro muoversi è assolutamente legale, regolato da leggi del diritto internazionale, come la Convenzione del 1951 sui Rifugiati, e che non si sta parlando solo di un generico, per quanto meritevole, appello al buon cuore, ma che si parla di diritti, da parte dei rifugiati, e doveri, da parte di chi deve accoglierli e dar loro protezione. Quella di Carlotta Sami, anche se ricca di dati e riferimenti legislativi, non è solo la cruda analisi di un fenomeno destinato ad ampliarsi, fino a quando esisteranno le guerre o Paesi colpiti da carestie improvvise per i cambiamenti climatici. Ma è pure il racconto umano di storie andate per una volta a buon fine, come Yahya, fuggito dal Gambia, che oggi lavora in un ristorante in Sicilia, o Tala scappata da bambina dalla guerra in Siria insieme al padre. Storie positive che non ci fanno dimenticare nè le carceri libiche come lager, né i trafficanti di esseri umani senza scrupoli, né i barconi che si rovesciano nel Mediterraneo o chi non ce la fa a percorrere la rotta balcanica. Storie che conosciamo bene davanti alle quali non si può più dire “aiutiamoli a casa loro”. Fabio PolettiCarlotta SamiRifugiati2021 HarperCollinspagine 160 euro 16

Per gentile concessione dell’autrice Carlotta Sami e dell’editore HarperCollins pubblichiamo un estratto dal libro Rifugiati.Il tempo e l’esperienza – personale e lavorativa – mi hanno permesso di imparare a comprendere senza giudicare chi non afferra immediatamente quali siano le particolarissime circostanze e condizioni che riguardano le persone definite rifugiate o esuli o profughe.Da parte mia, sono cresciuta in una famiglia che in tutti i suoi rami si è costruita, dipanata, disgregata e poi ritrovata attorno alla condizione della fuga, delle molteplici radici, lingue, nazionalità.Qualche anno fa ho provato a cercare, invano, la tomba di alcuni miei prozii mentre mi trovavo a Trento per lavoro. Mia madre mi aveva informato che, dopo la Seconda guerra mondiale, avevano finito i loro giorni lì, dopo essere già stati sfollati dall’Austria verso l’attuale Slovenia durante la Prima guerra mondiale, per poi fuggire verso l’Italia.Così fece mio bisnonno, geografo trilingue italo-austriaco-slavo, quando dovette decidere da che parte stare e, durante la Grande guerra, fuggi con la famiglia da Graz verso Trieste. In questa città di confine fu quindi costretto a cambiare il cognome, non abbastanza italiano, da Samiz a Sami: un’assonanza curiosa fra la popolazione del Circolo polare artico e i paesi arabi – dove, mi racconto un amico rifugiato palestinese, sami significa “di animo nobile” – che mi avrebbe creato non pochi problemi nel passare per l’aeroporto di Tel Aviv, e che d’altronde mi avrebbe anche aiutata tanto nei rapporti di lavoro in Medio Oriente.Da parte di mia madre erano tutti slavi, tutti parte della cosiddetta Yugosfera, un’espressione che amo molto perché mi ricorda quando da bambina andavo in “Yugo”: un mondo familiare e così discrepante rispetto alla mia vita italiana del quale avrei serbato bellissimi ricordi.I nonni fuggirono dunque verso l’Italia alla fine della Seconda guerra mondiale, lasciandosi tutto dietro, e perdendo tutto quello che avevano. Mia nonna mi raccontava spesso della sua fuga dentro una cassapanca: un’odissea che le fece venire i capelli bianchi a vent’anni.I racconti di ciò che era stato lasciato indietro hanno accompagnato tutta la mia infanzia e la mia adolescenza e, francamente, all’epoca non li sopportavo.Non comprendevo tutta quella nostalgia, la difficoltà nel guardare avanti, nell’adattarsi a una nuova vita che comunque non si poteva evitare.Poi, la vita mi ha portata, quasi per una sorta di karma, a lavorare con i rifugiati sin dai primi passi della mia esperienza lavorativa, senza che neppure io l’avessi deciso consapevolmente.Ho cominciato nella primavera del 1998 in Palestina, ad Abu Dis, Gerusalemme est. Arrivata senza conoscere nulla ho iniziato come volontaria, prima molto spaventata, poi indignata e infine tanto appassionata quanto frustrata.E in Palestina, grazie alle persone straordinarie con cui ho operato e creato legami di amicizia, che ho compreso l’assillo dell’oppressione, la disperazione del distacco e della perdita e la spinta fortissima al ritorno, nonostante tutto.Anni dopo mi sono finalmente resa conto che la mia famiglia è stata, in effetti, una famiglia di esuli e rifugiati (parola che peraltro allora nessuno utilizzava).Ho compreso a fondo questa condizione esistenziale e materiale lacerante che ti fa sentire inadeguato, sempre diverso, fuori posto, e che al contempo, proprio per questo, ti dà una marcia in più. Perché, un po’ come la timidezza, ti offre la possibilità di osservare la realtà dal di fuori, di far tesoro delle osservazioni, di raccogliere le migliori energie per il riscatto.Rispetto immensamente le persone rifugiate e ho una sete implacabile di ascoltarne le storie, le paure, i desideri.Comprendo bene ora il desiderio del ritorno, la volontà di raggiungerlo anche a costo di sacrificare un maggior benessere o una maggiore libertà.Con questo libro vorrei però scendere su un piano più razionale, con il doppio obiettivo di chiarire i tanti fraintendimenti in materia e fare il mio per liberare i rifugiati dalle strumentalizzazioni di cui sono vittime, dall’odio ignorante e senza scrupoli che li travolge. La speranza è che questo modesto contributo possa servire – seppure in minima parte – a restituire loro il rispetto e la dignità che meritano e che tutti dovrebbero riconoscere loro, non fosse altro perché la condizione di rifugiato e profondamente radicata nell’essenza stessa di ogni essere umano.© 2021 HarperCollins Italia S.p.A., Milano