Oggi lo chiameremmo body shaming, la non più accettabile presa in giro di chi ha un corpo non in linea con i canoni estetici dominanti. Di fatto, al primo posto, ci sono le persone grasse, peggio se di sesso femminile, quasi un’anomalia genetica in un mondo dove si vorrebbe che tutti fossero magri se non di più. In questo Fat Phobia, pubblicato dalla casa editrice Mar dei Sargassi, Sabrina Strings, ricercatrice afroamericana, Ph.D. Associate Professor of Sociology alla University of California, Irvine, analizza come nei secoli il modello della persona magra sia stato sempre accostato ai bianchi mentre chi aveva la pelle scura, veniva considerato colpevole di una doppia menomazione, quella di essere più grasso degli altri esseri umani e, appunto, quella del colore della pelle. L’analista storica di Sabrina Strings in questo libro, riccamente documentato e scritto pure con una certa ironia, parte da una prospettiva inedita, prendendo in considerazione i soggetti solitamente marginalizzati o esclusi dai trattati di estetica, inglobando al suo interno eventi e personaggi apparentemente distanti, come i dipinti di Rubens e l’importazione di zucchero e caffè dalle colonie verso l’Europa. Tra pagine ricche di resoconti di viaggi esotici, diete azzardate da medici probi e timorati di Dio, dame appariscenti, inventori di un famoso marchio di cereali, paventate epidemie, gerarchie della razza e classifiche di bellezza messe a punto da pensatori considerati illustri, Sabrina Strings avanza la tesi che le radici della grassofobia siano da ricercarsi nell’ascesa delle teorie della razza a partire dal Rinascimento. Fabio Poletti Sabrina Strings Fat Phobia traduzione di Marina Finaldi 2022 Mar Dei Sargassi pagine 256 euro 18
Per gentile concessione dell’autrice Sabrina Strings e dell’editore Mar Dei Sargassi pubblichiamo un lungo estratto dal libro Fat Phobia.
Virey fu avido lettore delle teorie umorali e fu lui stesso a formulare delle ipotesi sulla pelle scura, il peso e i peccati di gola. Le persone nere, sosteneva, erano automi senza cervello o autocontrollo che “arresisi ai piaceri della tavola, quegli epicurei indisciplinati e gran mangiatori che paiono vivere in funzione del cibo, hanno un aspetto stupido… ruminano in continuazione, riesce loro impossibile il pensiero”. Era in questo che differivano dai bianchi. Proseguiva: Nella nostra specie bianca, la fronte è proiettata in avanti e la bocca si ritrae, come fossimo progettati per pensare piuttosto che per mangiare; nella specie dei negri la fronte è sfuggente e la bocca protrusa, come fossero fatti per mangiare e non per pensare. Virey adottò ancora il linguaggio mutuato dalla teoria degli umori per stabilire una correlazione diretta fra grasso e colore della pelle: “[Quanti] sono più scuri di altri entro la stessa razza, son anche più robusti, attivi e gagliardi”. La ragione di ciò, sosteneva, era “il caldo solare [che] cagiona nel corpo la conservazione dei fluidi adiposi in eccesso, permettendo il loro accumulo sul petto e sull’addome”. Pertanto, chi vive con una maggiore esposizione al sole è più incline ad avere la pelle scura e a sperimentare un antiestetico “eccesso” di agglomerati adiposi sul corpo. La posizione di Virey sul nesso tra pelle e grasso superfluo era questa, quando decise (inspiegabilmente) di prendere a modello le cosiddette popolazioni ottentotte dal colorito brunito come esempio dell’ingordigia e della corpulenza nera. Le sue motivazioni restano evasive. Trattandosi, tuttavia, con Virey, dell’ennesimo intellettuale francese incollato alla scrivania, è plausibile che la scelta degli ottentotti sia avvenuta sulla base della riproduzione di testi scritti sul loro conto fin dal sedicesimo secolo. È altrettanto probabile che, a giocare la sua parte, sia stato anche il suo presunto coinvolgimento nella dissezione di un’ottentotta celeberrima. Virey prendeva gli ottentotti come esemplari di nerezza, ma anche come suoi rappresentanti. Nella Histoire naturelle du genre humain osserva che, mentre gli uomini di quel popolo hanno una costituzione robusta e “solida”, le donne, soprattutto con l’avanzare dell’età, sviluppano fondoschiena ampi e pance prominenti. Oltre al clima che provoca nel corpo la ritenzione di adipe liquido in eccesso, affermava che le donne erano spesso gravide o sedentarie. La sovrabbondanza di fluido adiposo si ammassava, pertanto, nell’addome e nei seni oblunghi e penduli, e avvolgeva come una cintura i fianchi e i sederi. Il didietro delle ottentotte, aggiungeva, rassomigliava a quelli dei quadrupedi: talmente vasto, a volte, da richiedere il supporto di un carrellino come per un animale domestico80. Che Virey abbia conosciuto le “negre” di cui parla con tanta autorevolezza in carne e ossa è opinabile. Come Buffon, la sua cono- scenza delle popolazioni africane derivava dalla lettura dei resoconti di seconda mano da parte dei più disparati avventurieri europei. E molti europei avevano scritto degli ottentotti. “Ottentotto” è il nome che i colonizzatori olandesi affibbiarono ai khoikhoi, dopo l’insediamento della Compagnia delle Indie Orientali (voc) al Capo di Buona Speranza nel diciassettesimo secolo. Da allora, i racconti si erano fatti largo nei vari centri d’Europa con una raffigurazione unica della fisiologia delle donne khoikhoi. Uno dei primi del genere giunse da un medico della voc, Wilhelm ten Rhyne. Nel 1686, il medico aveva scritto delle loro labbra vaginali allungate, simili a dita che sporgono dalle parti intime, che credeva una caratteristica esclusiva di quel popolo. I viaggiatori e gli autoproclamatisi antropologi del secolo seguente riportarono le stranezze degli ottentotti nei loro resoconti. Degno di nota è il testo del dottor Anders Sparrman, medico naturalista svedese, allievo del rivale di Buffon, Carolus Linnaeus, che vide svariate ristampe sulle riviste di area britannica e americana. Sparrman esprimeva, in esso, la propria costernazione per la rappresentazione delle ottentotte, proclamando che il mondo era stato erroneamente spinto a credere che fossero “mostri per natura”. Secondo la sua visione, le ottentotte non erano mostri, visto che l’unica differenza dalle altre donne del mondo, al di là del colore, era costituita dalla clitoride e dalle labbra allungate. Per lui, quest’anomalia fisiologica non era altro che una prova della loro “ignavia e del calore del clima”. Il medico non faceva menzione della grandezza o della forma dei fondoschiena, dei seni, delle pance delle ottentotte. Ma, l’avesse fatto, non avrebbe provato una repulsione paragonabile a quella di Virey per la loro presunta natura di grassone. Al contrario, Sparrman introduceva la sua dissertazione sugli ottentotti con la seguente affermazione: Per quanto concerne la loro persona, sono alti come la maggior parte degli europei; e riguardo al loro essere generalmente più magri, esso è conseguenza del loro lesinare e limitarsi sul cibo. Nel descrivere gli ottentotti come naturalmente magri, Sparrman offriva una prospettiva del tutto opposta a quella di Virey. Rispecchiava, in effetti, la definizione generica che ne aveva fornito Bernier qualche centinaio di anni addietro. Una spiegazione di questa divergenza di prospettive potrebbe ritrovarsi nel fatto che Sparrman, a differenza di Virey, si era effettivamente recato al Capo di Buona Speranza e aveva incontrato delle vere donne sul posto. Vi è una possibile ragione ulteriore per la distanza delle loro vedute. Con l’arrivo degli inglesi, cominciò a diffondersi il nuovo discorso degli eccessi degli ottentotti. Nel 1777, ad esempio, una donna inglese dal nome di Jemima Kindersley diede alle stampe le lettere dei suoi viaggi intorno al Capo di Buona Speranza. Una di esse conteneva la seguente osservazione a riguardo degli ottentotti: Dipendono dall’ubriachezza e dai vizi di gola; non possedendo moderazione alcuna nel mangiare come nel bere, ma abbandonandosi a entrambi fino all’estremo eccesso ovunque li si lasci fare. Fra gli olandesi, e perfino nei resoconti britannici del sedicesimo secolo, le storie sull’ingordigia ottentotta erano insolite. Nel contesto illuminista, tuttavia, le preoccupazioni degli inglesi per i pericoli dell’ingozzarsi vennero accorpate al discorso razziale. Tanto contribuì a rendere gli eccessi una prova non solo di stolidezza, ma anche di barbarie. Eppure il rapido diffondersi, fra gli autori illuministi britannici, dell’immagine dell’ottentotto vorace, simile alla rappresentazione complessiva degli africani neri, non ne modificò repentinamente la raffigurazione da popolazione esile a grassa. Nel 1773, lo scrittore londinese John Hawkesworth si vide attribuita la paternità della prima fotografia britannica dell’ottentotto. Basandosi sul diario di viaggio del capitano James Cook, scriveva: “Essi sono comunemente di magre fattezze e più sottili che pieni”. Negli anni 1790, la lenta variazione di prospettiva sull’aspetto degli ottentotti vide scontrarsi due eventi. Innanzitutto, “ottentotto” veniva via via incorporato al concetto di “negro”. Ne dà dimostrazione l’opera del padre svizzero della fisiognomica: il pastore protestante Johann Caspar Lavater. I suoi scritti, nei quali adopera le due parole come sinonimi, furono diffusamente letti e apprezzati in Gran Bretagna. Dopo la conquista di Città del Capo (1795), i rapporti inglesi sulla corporatura e la stazza ottentotte descrivono una notevole somiglianza con i “negroes” di cui si erano occupati gli autori inglesi e francesi a metà del diciot- tesimo secolo. An Account of Travels into the Interior of Southern Africa (Resoconto di viaggio nelle profondità del Sudafrica), libro del 1804 dell’inglese John Barrow, espone nel dettaglio i maltrattamenti cui i boeri olandesi sottoponevano gli ottentotti, analizzando come la disumanità dei colonizzatori precedenti li avesse resi avari e grassi: Svogliato nel lavoro e privo della capacità di pensare, con la mente distaccata da qualsivoglia riflessione o interesse, incline agli eccessi e alla gratificazione di ogni appetito sensuale il colono africano lievita in misura ingombrante. Tuttavia, la principale causa della rielaborazione del concetto di ottentotto da magro a grosso fu, forse, l’imbattersi degli inglesi nel presunto archetipo di bellezza femminile ottentotta e la sua successiva esibizione. La sua esistenza come simbolo della femminilità nera contribuì a trasformare l’immagine degli ottentotti e a rendere la grassezza una forma di femminilità intrinsecamente nera e implicitamente sgradevole nell’immaginario scientifico e popolare d’Europa. La donna si chiamava Saartjie “Sara” Baartman. La sua data di nascita è oggetto di discussione: la maggior parte delle fonti citerebbe il 1789, ma più di una suggerisce che sia venuta al mondo nel 1770. Sara crebbe nella fattoria di un tale David Fourie, discendente di ugonotti francesi sfuggiti alle persecuzioni di Luigi XIV e stabilitisi a Città del Capo nel 1680. Quanto a Fourie, fu un assassino spietato che, insediatosi nella zona in cui vivevano i Baartman, aveva preso possesso della terra, del bestiame e delle persone che la calpestavano per decreto. Dopo la sua morte, il clan Baartman venne separato e venduto a diversi schiavisti. Sara e i genitori divennero proprietà di un certo Cornelius Muller. Intorno al 1803, l’anno successivo alla sanguinosa ribellione dei khoikhoi, molti inglesi abbandonarono territori interi del Capo, fuggendo con quel che rimaneva delle loro ricchezze e risorse. L’economia collassò. Hendrik, un liberto nero che aveva comprato Sara alla morte dei genitori di lei, si ritrovò indebitato fino al collo. Liquidò la proprietà che, una volta, aveva contato su quattrocento schiavi e ne tenne per sé due soltanto: una dei due era Sara. Per saldare i propri debiti, Hendrik decise di esibire Sara ai soldati britannici, sbarcati con gli ultimi reggimenti di fanteria nel 1806. I racconti della natura carnale insaziabile delle donne nere, di- ramati per anni in patria, davano loro le vertigini. Fu così che la carriera di fenomeno per il sollazzo europeo di Sara cominciò intorno al 1806, mentre ancora si trovava a Città del Capo. I suoi primi spettacoli si tennero all’ospedale della marina del posto, dove gli ampi contingenti di soldati si ritrovavano subito dopo lo sbarco. Delizia dell’infermeria, Sara avrebbe esibito il proprio corpo nudo per i militari come ultimo assaggio del piacere prima che questi dessero il benvenuto alla dolce morte. Fu, secondo gli studiosi Clifton Crais e Pamela Scully, “la danzatrice esotica del diciannovesimo secolo” e, al prezzo di un biglietto, i moribondi erano autorizzati perfino a toccarla o ad avere con lei un rapporto sessuale. L’idea che Sara potesse essere più di un’attrazione per malati e morenti del Capo venne al chirurgo scozzese Alexander Dunlop. Dunlop aveva vissuto a Londra in gioventù e, dopo aver osservato le attrattive di Sara, si convinse che costei potesse fruttargli parecchio denaro, se solo fosse riuscito a portarla nel Continente. Dunlop raggirò l’analfabeta Hendrik e gli fece firmare un contratto che lo designava come accompagnatore di Sara nel viaggio per Londra, una sorta di agente o imbonitore. Sara, appartenendo a Henrik, non venne interpellata. Nel 1810, i tre salparono alla volta dell’Inghilterra. Londra era l’epicentro d’Europa. La città traboccava di opportunità per quanti avessero la mente orientata agli affari, di salotti per quanti avessero una vocazione filosofica, di spettacoli per chi andava alla ricerca di intrattenimenti grotteschi. Con le esibizioni di Sara, Dunlop intendeva sfruttare un incrocio fra tutte e tre le cose. Pubblicizzò la donna come rarità scientifica ed erotica, un autentico “fenomeno da baraccone etnografico”. Nelle prime locandine dello spettacolo, lei appariva come “l’esemplare perfetto di quelle genti”, vale a dire gli ottentotti. Inoltre, i manifesti riportavano che fosse in possesso “della conformazione più ammirata fra i suoi compatrioti”, quasi a spiegare il perché della parola “Venere” nel suo nome. A legittimare Sara come “esemplare perfetto” di ottentotta (e, per analogia, di donna nera) c’era il suo corpo prosperoso. Dunlop e Sara avevano lavorato insieme per confezionare un costume che fosse verosimile e al contempo esotico che, rispetto all’abito khoikhoi, era più fantasia che fatto. Nonostante questo, alcune riproduzioni dei suoi costumi vennero considerate caste in modo deludente e, pertanto, fasulle dai suoi spettatori londinesi, che si aspettavano qualcosa di selvaggiamente africano. © Mar dei Sargassi, 2022 © 2019 by New York University