Avere 9 mila follower e parlare di rifugiati o richiedenti asilo, non è cosa da poco. Definirla l’influencer della solidarietà è certo eccessivo, ma l’avvocato Francesca Napoli, 37 anni, titolare dell’account storiedallaltromondo, è riuscita a varcare quella linea di confine dove pochissimi si sono avventurati: parlare di dolore, di respingimenti, di mancata accoglienza sulla social-piattaforma pop per eccellenza, Instagram. Mentre altri dibattono di numeri, flussi, ondate e respingimenti, lei posta un volto, una storia, una speranza: madri che sono riuscite a salvare sé stesse e i propri figli dalla Libia, ragazzini arrivati sani a salvi dall’Afghanistan, medici uiguri, deportati iracheni, ex bambini di strada venezuelani.
Una volta spento il cellulare, di cosa si occupa?
«Nella vita reale sono un avvocato e sono specializzata nel diritto d’asilo. Ho lavorato a lungo nella cooperazione, in Colombia, nel Sud Sudan, in Libia, a Lampedusa. Oggi mi occupo di ascolto, orientamento e tutela legale al centro Astalli, a Roma».
Nello specifico, cosa fate?
«I nostri servizi vanno dalla preparazione all’intervista davanti alla Commissione per il riconoscimento della protezione internazionale alle richieste di aiuto per i ricongiungimenti familiari».

Sono queste, le @storiedallaltromondo?
«Sì, per la maggior parte sono le storie che ascolto quotidianamente. Tutto è nato un anno fa. Era maggio e stavo ragionando su a che punto fosse arrivata la disumanizzazione del fenomeno migratorio. La propaganda salviniana era fortissima e parlava solo di numeri, mai di persone. Era come vivere sdoppiata: ogni giorno ascoltavo e toccavo con mano storie terribili ma, al tempo stesso, attorno a me prevaleva un negazionismo dilagante. Soprattutto sui social media. All’epoca ero un’utente di Instagram, neppure troppo attiva: mi sono detta, se si spargono tante menzogne, perché non divulgare anche le storie che ascolto quotidianamente?»
Perché le ha chiamate “Storie dall’altro mondo”?
«Perché la mia impressione, quando è nato l’account instagram, era di vivere in un mondo diverso. Il mio lavoro avviene fisicamente sotto terra, i nostri uffici sono sotterranei. Ma sono nel cuore di Roma, in piazza del Collegio Romano. Ecco, ogni sera, dopo aver ascoltato queste storie terribili, emergevo nel cuore di una città che parlava di altro. La sera, accendevo la tv e si raccontava di un’altra realtà. Così mi sono detta: “Devo portare a galla queste storie sommerse”. Ed è nato storiedallaltromondo. È arrivato prima il nome, del progetto».
Com’è andata, all’inizio?
«Quando ho aperto la pagina, ho avuto subito un ottimo riscontro. La motivazione me l’hanno data i miei assistiti: sono sempre stati entusiasti di partecipare. Chiedo sempre il permesso prima di ritrarre qualcuno di loro, oltre che di condividere le loro storie, e sono loro i primi a capire l’importanza di far sapere qual è il dramma dei rifugiati».
“Questo mondo”, invece, come l’ha presa?
«I feedback sono stati fin da subito positivi. Quando parliamo di numeri dell’accoglienza, di flussi in arrivo, parliamo in astratto. A quando osservi un volto, quando sai che quella persona esiste, che ha quel nome e che ha vissuto quel dramma, scatta l’empatia. È inevitabile. Ma l’aspetto fondamentale, per me, è restituire dignità ad un volto, ad una storia. Qualcuno mi offre un ritratto, altri una mano, un lembo del vestito: l’importante è dare concretezza della persona e del suo passaggio sulla terra. È un’esigenza umana, che ci permette di rendere concreto quanto avviene in Libia, in Grecia o in Croazia».
Qual è la storia che le è rimasta dentro?
Quella di Selmia, che ha 85 anni, un cancro e un permesso di soggiorno per motivi umanitari scaduto: non è possibile rinnovarlo, perché il Decreto Sicurezza ha cancellato per sempre questa forma di protezione. Non fa che entrare e uscire dagli ospedali ed è stanca. Stiamo lottando perché ottenga un permesso di soggiorno di sei mesi per motivi di salute: questo è il massimo cui può aspirare, adesso.
«Il decreto sicurezza non ha reso l’Italia più sicura, ma più disperata. Ogni giorno mi chiedo: quante altre persone oggi, prive di assistenza legale, rischiano di morire così?»

Me lo dica lei.
«Penso ai tanti che fuggono dal Pakistan, che non può certo essere considerato una situazione protetta. Penso a chi fugge dalla Nigeria, dove forse non ci sarà un conflitto attivo, ma la situazione dei diritti umani è così disperata che non si può certo parlare di stato di diritto: hanno tutto il diritto di aspirare ad una vita più degna. Penso ai disperati che oggi affrontano la rotta balcanica…»
Ha parlato anche del confine croato?
«Ho pubblicato alcune storie tratte dal rapporto pubblicato lo scorso settembre dal Border Violence Monitoring Network, nel quale si parlava di cani della polizia scagliati contro profughi afghani minorenni alla frontiera ungherese: il più piccolo aveva 10 anni. Un caso che è stato denunciato dall’Unhcr nel 2016: da allora la situazione è solo peggiorata. Riporto: “Quando i cani ti attaccano la polizia non li ferma. Sorridono e si congratulano con loro”».
Le aggressioni da parte dei cani sono solo una delle torture inflitte contro i migranti che cercano di entrare in Europa attraverso la rotta balcanica. Questo sulle nostre frontiere.
Parliamo dei disordini in Grecia: cosa ne pensa?
«Sta avvenendo qualcosa di ben preciso. Si sta criminalizzando la solidarietà. Ma non solo. Nel momento in cui togli le ong dal mediterraneo e militarizzi le frontiere, non ci sarà più nessuno in grado di raccontare quanto avviene: né gli operatori, né i giornalisti. Restano solo i migranti, soli nel dover provare e testimoniare. Il mancato rispetto dei diritti umani sarà difficilissimo da provare, a quel punto».
Ha seguito molti siriani?
«No, perché chi segue la rotta balcanica, non arriva in Italia. Qualcuno arriva tramite la rotta aerea o attraverso i corridoi umanitari, ma già con i documenti. Ricordo però un mio assistito siriano, arrivato tramite la rotta libica, che vive una situazione molto triste, perché sua moglie e le loro tre bambine sono ancora bloccate nella regione di Rojava, in una situazione di alto rischio, tant’è che hanno dovuto spostare il campo profughi. Sto cercando di aiutarli ad attuare il ricongiungimento».

Non sarà una lotta contro i mulini a vento, la sua?
«Chiariamo un punto. Parliamo di un valore, quello dell’accoglienza, che non è innato ma si è creato. Il diritto di asilo è stato creato tra le due guerre mondiali, prima l’accoglienza era prerogativa del singolo Stato, non era determinata a livello internazionale. A livello statale, sono i cittadini a decidere: lo stato siamo noi, è la nostra di coscienza civile che deve tornare, non quella del governo. Fino a qualche anno fa la narrazione era diversa, i cittadini più accoglienti: misure come i decreti sicurezza non sarebbero mai state accettate».
Cosa risponde al classico: “aiutateli a casa loro”?
Rispondo che non c’è alternativa all’immigrazione. Negare il fenomeno dell’immigrazione è come negare il cambiamento climatico. È frutto di una serie di eventi, se non li si va a modificare non si potrà mai incidere sul fenomeno a livello globale.
«E finché esiste una crisi, le persone non possono essere respinte, ma bisogna lavorare a livello globale. Saranno anche migranti, saranno pure rifugiati, ma sono prima di tutto persone che hanno dei diritti universali».