Cosa significa insegnare l’italiano a ragazzi stranieri appena arrivati in Italia? E in che modo conoscere l’arabo, quella che è la loro lingua del cuore, può facilitarlo? Ce lo racconta Fausta Trentadue, la prof che raccoglie le sfide delle seconde generazioni nelle periferie. Un’insegnante di italiano per stranieri che lavora nella zona del Giambellino-Lorenteggio e a Cinisello Balsamo in scuole primarie e secondarie ma anche in qualche Cpia (Centro provinciale istruzione adulti). In questi undici anni, Fausta Trentadue ha accompagnato il percorso di crescita dei ragazzi delle seconde generazioni che segue e ha conosciuto da vicino la realtà delle loro famiglie. Con molti di loro ha costruito un rapporto speciale, anche con i più aggressivi e ribelli nei confronti dell’autorità. Cosa significa lavorare con ragazzi giovanissimi, origini prevalentemente maghrebine, in contesti difficili da cui stanno emergendo ora più che mai disagio, problematiche e devianze? E cosa significa soprattutto riuscire ad aiutarli (e riuscire) a invertire il loro destino, aiutadoli a diventare cittadini?
Lo vedo. È lì, piccolo, nel suo banco, una maglietta sbiadita e i jeans, occhioni grandi e capelli ricci. Egiziano, proveniente da un territorio povero e deprivato, scolarizzazione zero, vita in campagna, tra gli animali, in ampi spazi. Mi avevano detto: «Non sa nulla, ricorda poco e vive in un suo mondo, bisogna dargli le nozioni di base e poi si vedrà».
Non ci ho creduto, come mi è accaduto poi tante volte in seguito; quelli considerati i peggiori, incapaci di stare fermi in classe, poco o per nulla scolarizzati, quelli che sembra che non gli interessi mai nulla… Ebbene quelli erano gli studenti che volevo io. Ogni volta era una sfida, cercare di rendere visibili, quei ragazzi che nessuno vedeva, né nel Paese d’origine, né in Italia
«Ciao come ti chiami?»
«Abanob.»
«Quanti anni hai?»
«Dodici.»
«Ti ricordi quando sei nato?»
Dice a stento che quest’anno la mamma non gli ha preparato la torta, ma non deve essere passato molto tempo dal giorno del compleanno. Cominciamo così le nostre lezioni, fatte di tanti pezzettini di carta dove scrivevo le sillabe per creare poi le parole, vere e inventate; lezioni fatte di risate, dettati, e tentativi di capire in quale giorno della settimana ci trovavamo. Non sapeva i giorni della settimana, le ore della giornata, il nome dei compagni di scuola e degli insegnanti.
La sfida di Fausta Trentadue parte dalla memoria
Eppure un giorno gli ho detto: «Mi racconti un cartone che hai visto in Egitto?». E da lì è cominciato tutto, è partita una strana narrazione fatta di parole italiane, gesti e parole arabe, la prima parola che ho imparato è stata waesh: ‘cattivo – mostro’. La memoria c’era, si doveva solo focalizzare la lezione sugli interessi personali e sui ricordi delle esperienze nel Paese d’origine e da lì siamo partiti. Questo sistema l’ho poi utilizzato tante volte con tutti gli altri che sono venuti dopo, ormai centinaia. Abanob mi ha fatto presto pubblicità raccontando agli altri compagni stranieri che c’era una prof speciale, diversa, divertente; con lei tutti erano bravi, ma proprio tutti.
Mi chiamava Magica. Dopo alcuni giorni sono arrivati tutti gli altri: Mahmoud, l’amico del cuore, Musta, Maiorika, Amin, Rimon, Patricia, Silver, Rashmi. Ognuno con la sua storia e tanta voglia di raccontarla; intorno al tavolino siamo diventarti tanti, sempre di più. Si parlava di lingua italiana, ma anche e soprattutto dei piccoli, grandi problemi dell’adolescenza, dei rapporti difficili con i genitori, delle prese in giro in classe, dove non si parlava mai, bocca chiusa e occhi spalancati
Undici anni con i ragazzi di seconda generazione
Qualcuno era più aggressivo: Antonio, quindici anni, piccolo e magro, cappuccio in testa, ribellione e voglia di scappare dalla classe, urlare ai prof e al mondo la propria rabbia; in Salvador vita dura e quando si viene qui è ancora più dura, bisogna farsi accettare e difendere la propria sensibilità, il cuore ferito e orgoglioso. Con i ragazzi abbiamo fatto tante cose insieme in questi undici anni: il pattinaggio, le gite a Gardaland, le uscite al Mc Donald e sono stata al loro fianco nei tanti momenti di crisi, i più terribili, in cui non si aveva il coraggio di parlare ai genitori, dopo aver fatto qualche bravata.
Suonava il telefono in piena notte: Prof, sono in questura, mi sento malissimo, mi accompagni al pronto soccorso. Prof, sono Ahmed, Mohamed è finito con la bicicletta sotto una macchina e lo so che domani ha l’esame di terza media… Chiami tu il prof in classe, glielo dici tu che domani all’esame non ci sarà? È una catena e loro lo sanno, io aiuto te che aiuti lui che aiuta lei e tutti insieme ci aiutiamo
Il mio contatto Instagram, Messanger o whatsapp ce l’hanno tutti; nessuno mai mi ha disturbato per un motivo inutile o mi ha fatto una telefonata senza rispetto. Tutti sanno che una risposta c’è sempre o almeno ci si prova.
Il lavoro della prof con le madri
E poi c’è in parallelo il lavoro con le famiglie e in particolar modo con le madri; per loro c’è da imparare la lingua, riuscire a comunicare con le istituzioni, la maestra, il medico di famiglia, la neuropsichiatra dell’Uonpia, l’assistente sociale. Le madri lo sanno, insieme tra donne ci si aiuta, io ho aiutato tanto loro, ma loro hanno aiutato tanto anche me.
Mi hanno insegnato il calore famigliare di chi riceve a pranzo o cena in qualsiasi momento della giornata: mangiare a terra, con le gambe incrociate; una grigliata in campagna e poi a bere il tè intorno al fuoco. Con queste famiglie sei subito a casa, sarà che ho vissuto a Napoli tutta l’adolescenza e sono di origini ‘terrona’, ma io tra loro mi sento davvero in famiglia
La lingua del cuore dei ragazzi di seconda generazione imparata da Fausta Trentadue
«Comunicare come si fa?» Mi chiedono in molti; «queste famiglie parlano solo la loro lingua e tu come fai a stare con loro?». Sono stati i ragazzi a insegnarmi; un giorno ho chiesto ad Amin e Maiorika, quelli forti in grammatica: «Ragazzi, fino ad oggi sono stata la vostra prof, la terza media è finita, avete voglia di diventare voi i miei insegnanti di arabo?» Ed eccoci qui oggi, a comunicare un po’ con tutti, genitori, bambini e adolescenti neoarrivati, nel mio arabo maccheronico, ma in qualche modo comprensibile. Ho voluto impararlo perché la lingua madre è la lingua del cuore e quando devi parlare di qualcosa di intimo o asciugare una lacrima in un momento di crisi è molto meglio se lo fai nella lingua in cui parlano la mamma, l’amico, il fratello.
Samuel è stato il primo al quale ho insegnato l’italiano, aiutandomi con l’arabo. Quindici anni, analfabeta, scolarizzazione nulla, ma voglia di inserirsi e di farcela; non riusciva a ricordare neanche una lettera dell’alfabeto e pian piano, collegando ogni lettera con l’iniziale di una parola araba ci siamo avvicinati alla letto scrittura; quel ragazzino smilzo e timido adesso è un cuoco, bravo, sicuro di sé
Ne ho avuti di ragazzi che hanno fatto strada: Maiorika e Amin sono iscritti alla facoltà di Mediazione, Rimon furbo come una volpe, cuore grande e anima profonda, lavora per un’azienda che fa consulenze alle banche, in due anni è diventato formatore. Potrei raccontare tante e tante altre storie, queste sono quelle che mi sono più care.
Storia di chi deve farcela perché indietro non si torna
Le seconde generazioni sono queste. Ecco alcuni percorsi che ho avuto la fortuna di sostenere; mi dicono sempre: «Prof, se sono così è grazie a te, se sono diventato forte e tenace è grazie al tuo esempio» e la mia risposta è sempre la stessa: «Sono io a dover dire grazie a tutti voi, grazie per esserci stati in questi anni, per avermi insegnato la pazienza del mondo arabo e africano, la velocità nell’adattarsi a culture e lingue diverse, tipica dei popoli dell’est, l’allegria dei sudamericani, l’eleganza delle ragazze brasiliane, la resilienza di tutti coloro che vengono da lontano e sanno che devono farcela, perché indietro non si torna».
È grazie a tutto questo che ho deciso di trasformare un’attività di volontariato in una professione, specializzandomi e documentandomi sempre di più per conoscere le culture e far valere la ricchezza della diversità a scuola e fuori.