Alma Neco è stata accolta nei giorni scorsi insieme agli altri membri della delegazione albanese, 20 medici e 10 infermieri, con le fanfare, con ringraziamenti che fischiavano e cinguettavamo su Twitter da tutte le parti, persino dal leader della Lega che non ha potuto sottrarsi al coro di applausi per gli albanesi venuti ad aiutarci a casa nostra a combattere il Covid-19. E preceduta da una gran retorica, di quelle che sollevano il morale nel momento più difficile forse, quello in cui non si capisce se il virus avanza o arretra, quello dei dubbi, quello della fase acuta di stordimento dovuta alla lunga reclusione e alle troppe contraddizioni nei divieti di uno stato democratico che fatica a imporsi e si affida alla burocrazia, alle interpretazioni.

Ma quello che nessuno sa, tranne chi la conosce, è che Alma Neco, 29 anni, specializzanda, è venuta a dare un mano nella terapia intensiva agli Spedali Civili di Brescia perché lei è nata a Milano e l’asilo lo ha fatto proprio a Codogno, dove è scoppiato il primo focolaio.

La storia di un ritorno

Una coincidenza che vista dalla quarantena attuale è quasi inquietante perché viene da chiedersi se le nostre esistenze siano state scritte da qualche mano ignota. Sia come sia, Alma Neco, figlia di una coppia di ingegneri che sono immigrati in Italia da Valona negli anni Novanta e poi tornati indietro per avviare un’attività commerciale, ha aderito all’iniziativa del governo del Paese delle Aquile perché, come ci ha detto alla fine di una lunga giornata in terapia intensiva, «l’Italia mi ha dato tanto e ho trovato doveroso restituire qualcosa». Del resto lei, che ha sempre voluto diventare anestesista e rianimatrice «per sottrarre le persone alla morte, per restituire l’anima a chi se ne sta andando», non è solo venuta ad aiutarci a casa nostra.

L’Italia è anche casa sua. Qui ha fatto l’asilo, in quella che è diventata la prima zona rossa, qui è tornata per fare l’Erasmus a Bologna. E qui ha fatto tre mesi di specializzazione all’ospedale San Raffaele. E in Italia ha due fratelli che hanno studiato e studiano all’università, a Milano.

«Avevo già cominciato ad assistere alcuni malati da Covid-19 all’ospedale di Tirana e così ho aderito con entusiasmo all’iniziativa del Governo albanese di mandare un gruppo di medici e infermieri in Italia», racconta a NRW. Prima di arrivare agli Spedali civili di Brescia, ha fatto un giro lungo passando da Roma e da Verona per via degli aeroporti chiusi. E prima di mettersi il camice, dice di aver incontrato tante persone, da non ricordarsi più quante, compreso il governatore della Lombardia. Ora osserva e affianca un medico italiano, «non seguo ancora direttamente i pazienti», ci spiega al telefono e un po’ via WhatsApp. Alma Neco, che si considera “made in Italy”, continua a dire e a ribadire che l’Italia le ha dato tanto.

Appena arrivata in reparto, mi aspettavo una situazione peggiore. Ci sono ancora tante risorse e moltissime competenze, il problema è che non sappiamo quanto durerà, spiega mentre ci dice che la cosa più difficile in corsia è muoversi bardati e sudati, per proteggersi dal virus.

Imparare in fretta

E non ha paura di ammalarsi, anche se osserva che gli unici momenti di rischio sono quelli delle pause, quando ci si ferma per pranzare e ci si mescola ai colleghi per tirare un sospiro. È arrivata da pochi giorni e ha visto pazienti anziani, ma anche malati giovani, appena sopra i 45 anni.

Le manca meno di anno per finire la sua specializzazione e spera di venire a lavorare in Italia, dove ha lasciato tutti i ricordi d’infanzia. E ora che è qui, a rischiare come tutti, deve rasserenare la famiglia e il marito, che temono possa contagiarsi. Perché dopo l’accoglienza calorosa, gli applausi in ospedale, ora c’è la corsia, c’è da imparare in fretta e dare il massimo in questo mese di permanenza nella terapia intensiva a Brescia.

Per lei che è stata qui fino all’età di sei anni per tornare a fare l’Erasmus e poi ancora per alcuni mesi della sua specializzazione, l’Italia è un Paese che le ha donato solo buoni ricordi, mai un momento in cui si sia sentita straniera. E ha trovato lo stesso Paese che ha lasciato, per quanto stravolto dall’emergenza. «Siete sempre gli stessi», dice, pur sapendo che non potremo essere gli stessi dopo questa pandemia, anche in Albania dove per ora i casi di contagio sono contenuti. «Ci dovremo abituare a cambiare il nostro stile di vita per continuare ad essere sani, per restare vivi e perché nessuno sa quanto tempo ci vorrà per poter fermare il virus», spiega a NRW.

Aiutare in corsia

Alma Neco è venuta per aiutare, ma anche per imparare perché poi dovrà affrontare gli stessi problemi nell’ospedale di Tirana dove finirà la specializzazione per diventare quello che ha sempre voluto essere fin da bambina, quando in Italia vedeva le serie televisive sui medici.

Ho sempre avuto in mente lo stesso sogno: diventare medico anestesista pe riportare in vita le persone, racconta con un timbro di voce grave.

«La cosa più frustrante in questi giorni è non sapere come reagirà un paziente. Aspettarsi che i polmoni riescano a ossigenarsi e constatare che non avviene. La cosa peggiore di un virus che non conosci è attendere una risposta dal fisico del malato che non arriva. Ti fa sentire impotente. E nonostante tutte queste difficoltà, resto ottimista perché credo nella medicina e perché non abbiamo alternativa», ci racconta prima di chiudere il telefono, esausta, anche se sono solo i suoi primi giorni in terapia intensiva a Brescia. Con il pensiero ai fratelli che stanno a Milano e lei non potrà vedere perché finito il turno non può spostarsi né viaggiare. 

Non siamo privi di memoria. Oggi siamo tutti italiani, e l’Italia deve vincere e vincerà questa guerra anche per noi, per l’Europa e il mondo intero, ha detto il premier albanese Edi Rama, salutando all’aeroporto di Tirana il team di medici e infermieri, fra cui c’era anche la specializzanda Alma Neco.

Ma chissà se chi ha accettato la sua candidatura per questa difficile missione, sapeva che lei stava tornando anche per i ricordi della sua infanzia nella campagna lodigiana. E che sarebbe finita dentro un’altra curva, diversa da quella che registra l’epidemia. Quella momentaneamente interrotta della ordinaria frustrazione sociale che spingeva molti italiani a guardare tutti gli stranieri, persino i medici, come marziani, mentre ora li accogliamo, (dopo gli albanesi sono arrivati anche i medici polacchi) come un esercito di salvezza.