Abdullahi Ahmed è nato a Mogadiscio, in Somalia, nel 1988 ma vive in Italia dal 2008. La sua è la storia di tanti giovani con un background migratorio alle spalle. La partenza da uno stato infiammato dalla guerra civile, uno zaino con dentro lo stretto indispensabile, il deserto, un barcone nel buio pesto del Mediterraneo, l’arrivo a Lampedusa. Qui però la storia di Abdullahi Ahmed prende un’altra piega. Viene trasferito in provincia di Torino, città che lo ha adottato e gli ha messo in mano un futuro. In poco tempo Ahmed diventa mediatore culturale e immagina un modello di cittadinanza attiva che faccia sentire i giovani stranieri veramente italiani, a prescindere da un foglio di carta o da un’identificazione legale. Va nelle scuole a parlare a ragazzi poco più giovani di lui, italiani e non. Fonda, insieme a un gruppo di amici provenienti ognuno da un continente diverso, l’associazione culturale Generazione Ponte, che riunisce rifugiati, seconde generazioni e italiani. Crea il Festival dell’Europa Solidale e del Mediterraneo, meglio conosciuto come Festival di Ventotene e ispirato proprio a quell’idea di Europa aperta e solidale promossa dal manifesto di Altiero Spinelli. Pubblica la sua biografia, Lo sguardo avanti. Dopo 13 anni di lontananza dalla sua Somalia, e dalla famiglia che ancora vive lì, decide che è finalmente ora di prendere un aereo e tornare indietro. Il volo è fissato per il primo marzo 2020, la pandemia di Covid lo ferma, ma il suo lavoro di creatore di ponti non è stato contagiato.
Cosa unisce la Generazione Ponte?
«Questo progetto nasce grazie a dieci ragazzi provenienti da ogni angolo di mondo: Pakistan, Afghanistan, Cina, Romania, Italia, Perù, e due dalla Somalia. Siamo persone libere, non condizionate da preconcetti e sovrastrutture. Ciò che ci accomuna è la voglia di creare azioni concrete ed essere un ponte tra generazioni e culture diverse. Vogliamo cambiare la narrazione legata all’immigrazione».
Come dovrebbe cambiare la narrazione?
«Si parla sempre dell’arrivo dei migranti, sempre in termini emergenziali, ma mai del dopo e non si dà mai spazio agli aspetti positivi dell’immigrazione. Dal lato di chi accoglie spesso c’è ignoranza, non si conosce la differenza tra rifugiato, richiedente asilo, apolide. In questo modo si crea diffidenza e si tende a mescolare contesti molto diversi tra loro. In Italia manca ancora una legge organica su rifugiati e richiedenti asilo, pochi capiscono la peculiarità di questo aspetto. Siamo nel 2021, e le risposte che diamo all”immigrazione erano innovative negli anni 70».
Quali strumenti mancano?
«Non serve solo assistenzialismo a chi arriva, ma anche strumenti per costruire davvero un futuro, gli stessi che dovrebbe avere chi nasce qui. Quando si pensa all’Africa, si pensa a villaggi sperduti nel nulla, ma l’Africa è cambiata e sarebbe ora di comprenderlo. I ragazzi molto spesso vengono dalle città molto più moderne e tecnologiche di quanto si immagini. Ma la responsabilità di questo cambiamento è anche di noi giovani migranti».
Cosa intende per responsabilità del cambiamento?
«Non si può essere stranieri per sempre. È giusto che venga premiato chi si impegna per essere cittadino, chi si rende utile. Lo sforzo deve venire anche dalla nostra parte. Generazione Ponte organizza molte iniziative culturali, tour e percorsi storici nelle città italiane».
Perché storia e cultura sono importanti per la Generazione Ponte?
Trovo sia importante conoscere la storia dell’Italia per non sentirsi solo ospiti, è necessario sapere che anche gli italiani un tempo sono stati migranti, trattati spesso con disprezzo. Serve trovare un dialogo comune per non trattare lo straniero come oggetto ma come soggetto. Più che di integrazione bisognerebbe parlare di interazione
Secondo lei il 2021 sarà l’anno dello ius soli?
«Bisognerebbe chiedersi chi è il cittadino, piuttosto. Per me il cittadino è colui che fa qualcosa di concreto per la comunità in cui vive. Sì, dobbiamo lottare per lo ius soli e per rendere più agile il processo per la cittadinanza, ma non c’è volontà politica, di qualunque schieramento si tratti, e purtroppo non è un obiettivo imminente. Ai tempi del governo Gentiloni siamo stati tre settimane in tenda a Piazza Castello, a Torino. Abbiamo ottenuto un incontro in Senato con Pietro Grasso. Salvini ha portato a quattro gli anni necessari per avere la cittadinanza, il governo PD-5s li ha riportati a tre. Come vede, non c’è volontà politica.
Se penso a tanti giovani di origini straniere, che quotidianamente rendono questo Paese migliore, mi chiedo e vorrei chiedere ai politici: “Cos’altro vi devono dimostrare?”. Per questo, nel 2021 vi propongo un’alternativa: la cittadinanza attiva per ripartire da zero
Quali sono i vostri obiettivi per l’immediato futuro?
«Durante il Covid abbiamo cambiato i nostri interventi sociali, spostandoli sull’assistenzialismo. Adesso vogliamo ripartire. Sarebbe bello poter tornare nelle scuole e ragionare sul nuovo “noi” che dovrebbe emergere nella fase post pandemia. Quest’anno tutti hanno capito l’importanza del diritto allo spostamento, del diritto all’istruzione e alla salute. E forse è ancora più utile sentirne parlare da chi è scappato, da guerre, da carestie e pandemie, da chi ha dovuto lottare per iniziare quel viaggio».
Sarà un anno di nuovi ponti?
«Credo ci sarà un nuovo interesse a costruire ponti, a finanziare borse di studio per i ragazzi che vivono in Paesi che non tutelano i loro cittadini. Entro giugno 2021 vorremmo iscriverci all’Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo, per dimostrare che l’attivismo sociale funziona in ogni contesto, e perché saremmo la prima associazione così multiculturale a riuscirci. Saremmo un modello positivo, e forse pionieri per un futuro raccontato diversamente».