In queste settimane abbiamo tutti accettato le limitazioni alla mobilità imposte per scongiurare la diffusione del contagio. Dopo aver vissuto a lungo nella sicurezza di avere un passaporto forte, un passaporto che ci avrebbe permesso sempre di spostarci da una nazione all’altra con facilità, come italiani ci siamo ritrovati con in tasca quella che per molti era solo una patente di untori. Chi era fuori per l’Erasmus ha cercato di rientrare, chi invece in altri Paesi ha intessuto nuove radici è rimasto dov’era prima del Coronavirus.

Abbiamo colmato la distanza vedendoci attraverso le videochiamate. I più capaci (o i meno impediti, che dir si voglia) hanno imparato a muoversi agilmente tra una app e l’altra: Houseparty per ritrovarsi con gli amici, il più serioso Zoom per le riunioni di lavoro, Skype quando proprio non c’è altro modo.

Ma cosa accade quando le distanze da colmare sono continenti? Come vive questo momento storico incerto quella che Tahar Ben Jelloun definisce la generazione involontaria, cioè i figli dell’immigrazione? In che modo si informano su ciò che sta accadendo nel loro Paese di origine, dove spesso risiede ancora una parte della propria famiglia? Cosa li preoccupa maggiormente? Cosa si aspettano dall’immediato futuro?

La prima a rispondere è Sara Lemlem, collaboratrice di NRW, le cui radici sono in Eritrea ed Etiopia. Trent’anni, nata e cresciuta a Milano, laureata in Mediazione linguistica e culturale, in questa video intervista Sara Lemlem ci racconta cosa sta facendo durante la quarantena e cosa pensa di quanto sta succedendo nei Paesi di origine dei propri genitori.