L’artista Luigi Christopher Veggetti Kanku è nato a Kinshasa nel 1979, a cinque anni è stato adottato dalla famiglia Veggetti di Barlassina. Oggi vive in Brianza e ha il suo studio a Meda in una grande casa con un piano interrato, dove ha il laboratorio. Le sue opere sono state esposte a Londra, a Berlino, a New York, alla Galleria Rubin di Milano e a Göteborg. Il suo catalogo, 30 Tele, nel 2010 è stato editato da Giorgio Mondadori. «Sono il primo artista afroitaliano a muoversi a livello professionale nel mondo dell’arte, trattando il tema dell’afrodiscendenza».

I prossimi 16 e 17 novembre, nel suo studio-abitazione di via Po a Meda, terrà un open day. «Sarà una mostra di tutte le mie opere, dai volti alle città alle spiagge, e sarà ospitata in tutta la casa e aperta al pubblico. Questa volta è una mia personale, ma nel 2018 ho fatto una mostra collettiva, ospitando artisti molto affermati del panorama italiano, come Papetti e Galliano, portandoli in Brianza».

Quando ha iniziato a occuparsi di arte?

«Professionalmente dal 2002. Durante una mostra su strada un gallerista mi si avvicina e mi dice che dovremmo collaborare. Mi porta su Arte Mondadori, fa una grande mostra e vende le mie opere a dei prezzi esorbitanti: io ero davvero giovane e abituato a vendere su strada, facendo mostre con associazioni culturali. Non ero tanto serio da stargli dietro, avevo ritmi diversi: esigeva più pezzi, e io non riuscivo a starci. Ho preferito tornare su strada».

Perché?

«La strada è bella perché l’artista ha il contatto diretto con il pubblico, nel contesto di una galleria questa cosa la perdi, perché l’unico referente è il gallerista. Ti perdi la parte umana, diciamo: i quadri sono un prodotto, ma tu sei l’artista e sei lì accanto. Mi sono fatto quattro anni su strada di nuovo e dopo mi ha contatto un vecchio collezionista che aveva aperto una galleria a Milano: la galleria era super figa, esagerata, Fitzcarraldo. Firmo l’esclusiva, ma era un rapporto di stima reciproca (e tutto questo perché era era nato su strada)».

Due sue opere, Donna e Perla, hanno fatto da “quinte” delle sfilate dell’ultima edizione dell’Afro Fashion Week milanese, come è nata la collaborazione con loro?

«Ho contattato Ruth (Akutu Maccarthy, cofondatrice di Afro Fashion, ndr) e le ho detto “Potremmo fare qualcosa per l’Afro Fashion Week”, perché mi sembrava l’occasione per portare avanti un discorso anche pittorico sull’afroitalianità e l’Africa. A loro l’idea delle quinte piaceva molto. Quindi ho realizzato per la Fashion Week due opere: una, Donna, più fashion, indubbiamente molto avvenente e fiera e cosciente della sua bellezza; un’altra, Perla, più dolce, una bellezza più semplice, quasi più autentica, in un certo senso. Era un omaggio alla bellezza africana in tutte e due le forme, quella consapevole e quella meno cosciente ma comunque affascinante, portando avanti il tema dei ritratti».

Mi diceva che è tornato a quel tipo di soggetti recentemente, per una motivazione politica…

«Una motivazione sociale. Quando ho iniziato, ho iniziato proprio con i ritratti, nel 1999/2000. Avevo tutte le mie frustrazioni da adolescente che viveva in un contesto bianco: un contesto bianco in cui, veramente, eravamo quattro gatti e non c’era nessuna educazione e nessuna sensibilità sociale. Eravamo buttati lì in mezzo».

Pensavo che il modo migliore che potessi avere per contribuire all’integrazione fosse infilare nelle case i ritratti di persone nere: una sorta di educazione indiretta. Sono andato avanti finché non ho capito che il mio percorso stava già diventando una testimonianza di un cambiamento: non avevo più bisogno del soggetto nero ma ero io il soggetto che stava cambiando qualcosa.

«Perché, come le dicevo, sono il primo artista afroitaliano nel panorama nazionale a livello pittorico. Una volta capito questo, ho iniziato a cambiare soggetti».

Senta titolo – Luigi Christopher Veggetti Kanku

E quindi è passato ai ritratti di città.

«Sono passato alle città. Era sempre un modo di raccontare l’afroitalianità perché io li realizzavo con una pittura molto di mestiere, attenta, che riprendeva anche gli artisti moderni italiani: nel mio lavoro c’era un forte richiamo alla storia dell’arte italiana. Quindi c’era anche questo contrasto». Il gallerista veniva lì e mi diceva: “Ah, lo sai, vedono le tue opere e tutto si immaginano tranne che sei nero”, perché non era esplicito e il mio modo era sicuramente molto, tra virgolette, italiano. E quindi c’era già un contrasto e un raccontare l’Italia (qui la voce si alza, come sbuffando, ndr) dal punto di vista di un nuovo italiano, sostanzialmente».

Il suo lavoro sulle città inizia con Forte dei Marmi e continua con i quadri su Monza e Brianza. Perché proprio Forte dei Marmi?

«Perché anche se la marina è un soggetto così commerciale, così banale, se riesco a farlo diventare non banale, è figo».

Sono seguite diverse mostre, in Italia e all’estero…

«Sì. In questi anni ho fatto diverse mostre, private e in gallerie, ma è la mostra pubblica che ti permette di avere un riconoscimento più critico, un fine culturale. Ho esposto le mie opere anche all’estero, il che è importante perché l’Italia è un paese esterofilo: fare la mostra all’estero dà molta credibilità in Italia. A Göteborg ho collaborato con una galleria svedese che d’estate si sposta a Pietrasanta: ho fatto delle personali e poi loro hanno aperto una galleria a Berlino. A Londra mi hanno chiamato perché il gallerista era passato dalla mostra di Berlino ed è poi venuto a un open day qui a Meda. E allora abbiamo fatto due mostre nella campagna londinese e una in una collettiva a Londra. A New York invece per ora ho fatto solo collettive».

Adesso sta lavorando a un progetto sull’afroitalianità?

«A progetti pubblici sul tema, ma per ora non voglio parlarne. Come dicevo, sono una realtà buttata lì, dove le radici non c’erano, non c’erano genitori, non c’era chi ti insegnava. Ho iniziato a ricercarle verso i diciotto. Dopo trent’anni che non ci tornavo, sono stato in Congo, poi una seconda volta, e lì ho riallacciato i rapporti con la mia famiglia. Sono sempre stato l’unico nero in classe, in paese: la scuola – diversamente da ora, per le mie bambine – non era una realtà multiculturale. E non c’era Internet ed eri solo tu e l’educazione che ti davano i tuoi».