Liudmila Kadatskaja, 46 anni, di San Pietroburgo, in Italia da vent’anni, medico al Servizio emergenze 118 della Asl di Chieti, coordinatrice per l’Italia dei Medici Russofoni, racconta la fatica di tanti medici stranieri: «Mi sono laureata in medicina con specializzazione in Pediatria nel 1996 in Russia. Nel 2008 mi sono dovuta iscrivere alla Sapienza di Roma e ripetere tutto il sesto anno. Ho dovuto ridare otto esami, scrivere la tesi di laurea e passare l’abilitazione. Ho la laurea italiana, posso lavorare in tutta la Ue, ma non è stata riconosciuta la mia specializzazione. Ci vorrebbe un passo in avanti di Italia e Russia. Siamo medici laureati, la differenza è solo il passaporto».

È cittadina italiana?

«Ho fatto la domanda due anni fa. I tempi per ottenerla si sono allungati. Posso lavorare solo nelle strutture private o in quelle in regime di convenzione».

Dalla Russia in Italia…

«Sognavo di fare il medico sin da ragazza. Nel 1996 mi laureo a San Pietroburgo in Medicina con specializzazione in Pediatria. Erano anni difficili, vivevo a casa dei miei genitori, gli stipendi erano bassissimi, i soldi mi bastavano solo per mangiare. Prendo un’altra specializzazione in Fisiologia. Lavoro come dirigente in un centro di analisi. Poi conosco quello che sarebbe diventato mio marito».

Decidete insieme di lasciare la Russia?

«Lui lavorava come piccolo imprenditore. La situazione era davvero difficile. Nel 1998, con la crisi, il mio futuro marito inizia a pensare di cambiare vita. Nel 1999 si trasferisce in Italia dove viveva già sua sorella. Io lo seguo l’anno dopo con un visto turistico di un mese. Si sentiva già parlare di una sanatoria. Alla fine decidiamo di fermarci. Siamo stati clandestini per due anni e mezzo».

La condizione di molti, se non di tutti…

«Facevo la baby sitter. Mi occupavo di bambini, diciamo come la mia specializzazione medica. Poi ho fatto l’aiuto cuoca e la cameriera di sala. Stavamo a casa della sorella di mio marito a Montesilvano in provincia di Pescara. Mio marito alla fine ottiene il permesso di soggiorno. Nel 2003 nasce la nostra prima figlia, ne abbiamo due, facciamo le pratiche per il ricongiungimento famigliare e con il matrimonio ottengo anch’io il permesso di soggiorno. Ma il mio pensiero fisso è tornare a fare il medico».

Alla fine ci riesce.

«Devo ridare otto esami, tutte cliniche. La laurea, l’abilitazione… La specializzazione non viene riconosciuta. In Italia dura di più. Avrei potuto farla, ma è complicato con la figlia, il lavoro…».

Lei è medico al 118 di Chieti. Come reagiscono i pazienti, quando si trovano davanti un medico straniero?

Alcuni possono essere prevenuti. Quando poi vedono come lavoro, lo scrupolo che ci metto, la mia preparazione professionale, si abbassano le paure. In emergenza non è che poi abbiano possibilità di scegliere.

Lei ha anche un ruolo tra i medici russi.

«Sono la coordinatrice per l’Italia dei Medici Russofoni. In Italia siamo una cinquantina. Nel mondo diecimila. È una struttura di aiuto per tutti quelli che esercitano questa professione di fronte alla burocrazia. Ma vogliamo anche che cambino le cose. Il riconoscimento della laurea passa per via ministeriale oppure bisogna ripetere una serie di esami come ho fatto io. Ottenere il riconoscimento della specializzazione è impossibile. Anche qui bisogna ripartire da capo. Ci vorrebbe un grande passo avanti negli accordi bilaterali tra Italia e Russia. Molti di noi medici stranieri siamo spesso in una condizione di precarietà. Sostituiamo i medici di base, facciamo i medici nei centri estivi, lavoriamo nelle strutture private. Abbiamo la passione per la nostra professione che ci fa superare tutto».