David Reich
Chi siamo e come siamo arrivati fin qui
Il DNA antico e la nuova scienza del passato dell’umanità

(Raffaello Cortina Editore, 2019)

Ci sono temi divisivi e assai controversi. Quello dell’origine della specie e delle razze in cui classificare gli esseri umani è tra i più discussi. La lettura dominante degli ultimi decenni è che ci sia una sola razza, quella umana, e che la pigmentazione della pelle sia non solo un carattere secondario ma pure ininfluente ai fini della classificazione genetica. Accanto a questa teoria, affermati scienziati e genetisti oppongono una visione diversa, non necessariamente razzista nel senso più negativo del termine. David Reich, professore di Genetica presso la Medical School di Harvard, uno dei massimi esperti di DNA antico, estraendo genoma da antichi fossili ha ricostruito una mappa delle disuguaglianze e delle migrazioni nella storia dell’Umanità, che ci ha portato ad essere quello che siamo. In questo studio David Reich smentisce la teoria secondo cui non ci sarebbero significative differenze biologiche tra le popolazioni umane ma, basandosi sulla sua ricerca genomica, cerca di dimostrare che le differenze vanno ben al di là degli stereotipi più comuni. E quelli sì, razzisti. Fabio Poletti

Per gentile concessione dell’autore David Reich e dell’editore Raffaello Cortina pubblichiamo un estratto del libro Chi siamo e come siamo arrivati fin qui.

Copertina

La rivoluzione del genoma è davvero una forza estremamente efficace se vogliamo arrivare a una nuova comprensione della differenza e dell’identità umane, a capire il nostro personale posto nel mondo che ci circonda, invece di promuovere vecchie credenze troppo spesso errate.
Per comprendere la capacità della rivoluzione del genoma di sgretolare i vecchi stereotipi dell’identità e costruire un nuovo fondamento per l’identità, pensate a come le sue scoperte di ripetute mescolanze nella storia dell’umanità hanno fatto a pezzi quasi tutti i nazionalismi su basi biologiche di un tempo. L’ideologia nazista di una “pura” razza ariana di lingua indoeuropea con profonde radici in Germania, rintracciabile attraverso i manufatti della cultura della ceramica cordata, è stata smantellata dalla scoperta che le persone che usavano quei manufatti provenivano da una migrazione di massa dalle steppe, una patria che avrebbe fatto storcere il naso ai nazionalisti tedeschi. L’ideologia “hindutva” secondo la quale i migranti venuti da fuori non hanno apportato alcun contributo importante alla cultura indiana è azzerata dal fatto che circa metà del DNA degli indiani odierni deriva da multiple ondate di migrazioni di massa dall’Iran e dalle steppe eurasiatiche negli ultimi cinque millenni. Parimenti era assurda l’idea che i tutsi in Ruanda e Burundi abbiano un’ascendenza eurasiatica occidentale che gli hutu non possiedono, una delle giustificazioni che stavano dietro il genocidio. Ora sappiamo che quasi tutti i gruppi oggi viventi sono il prodotto di ripetute mescolanze di popolazioni avvenute in millenni e decine di millenni. La mescolanza è nella natura umana, e nessuna popolazione è, né può essere, “pura”.
Sono stati i non scienziati a capire per primi il potenziale della rivoluzione del genoma di generare nuove narrazioni, e gli afroamericani sono stati all’avanguardia di questo movimento. Durante la tratta degli schiavi gli africani sono stati sradicati e privati a forza della propria cultura, perciò gran parte della religione, della lingua e delle tradizioni dei loro avi sparì nel giro di poche generazioni. Il romanzo Radici di Alex Haley del 1976 usò la narrativa come strumento per rivendicare le radici perdute rievocando l’odissea dello schiavo Kunta Kinte e dei suoi discendenti. Nel solco della sua tradizione, Henry Louis Gates Jr., docente di letteratura a Harvard, ha pensato bene di sfruttare il potenziale delle ricerche genetiche per recuperare le radici perdute degli afroamericani. Nelle sue trasmissioni televisive Faces of America e la successiva Finding Your Roots, Gates dice a un certo punto al violoncellista Yo-Yo Ma, il quale può far risalire la sua linea genealogica fino alla Cina del Duecento, che lui, Gates, in quanto afroamericano non saprà mai che cosa si prova a poterlo fare, ma subito dopo dimostra che la genetica può regalare ricche informazioni persino agli afroamericani con un archivio genealogico limitato.
È infatti spuntata una nuova industria dei test sulle origini personali per sfruttare le potenzialità della rivoluzione del genoma di costituire la base di nuove narrazioni e di raffrontare i genomi dei clienti con gli altri che sono già stati esaminati. I programmi televisivi prodotti da Gates sono stati realizzati attorno all’idea di ricostruire la genealogia e il DNA dei loro ospiti famosi, e di sfruttare lo strumento narrativo della rievocazione delle storie private delle persone celebri per aiutare lo spettatore a capire il potere della genetica di rivelare aspetti del passato di una famiglia, del quale altrimenti quella persona sarebbe rimasta all’oscuro. Per esempio, le varie puntate svelavano rapporti profondi e sconosciuti tra le coppie di ospiti del programma (tipo antenati condivisi negli ultimi due secoli), e usavano la genetica per individuare non solo il continente in cui vivevano gli antenati di una data persona, ma anche la regione di quel continente. In quanto cittadino bianco degli Stati Uniti, che hanno un passato caratterizzato dal furto delle radici dei popoli, ritengo che chiunque, in particolare gli afroamericani e i nativi americani, abbia il diritto di tentare di usare la genetica per inserire i pezzi mancanti nella propria storia familiare. Però è importante che chi dà per scontato che i test sulle origini personali abbiano l’autorevolezza dei dati scientifici non dimentichi che tanti risultati sono facili da equivocare e di rado sono accompagnati dai caveat che gli scienziati allegano sempre alle scoperte incerte.

© 2018 by David Reich and Eugenie Reich
© 2019 Raffaello Cortina Editore