Una cosa ho vissuto nella mia esperienza con i migranti: l’importanza dello sguardo. Passando fra gruppi di individui malconci, ammassati in luoghi sgradevoli o esposti alle intemperie, se li guardiamo negli occhi, si accende qualcosa nello sguardo. Per questo chiamano chi mostra di interessarsi a loro mamma, padre, fratello o amico, nomi che rimandano a quando erano riconosciuti degni di attenzione e di cura.
Il primo gesto per far emergere il singolo dalla massa è, dunque, guardarlo negli occhi e chiedere il suo nome. In quindici viaggi in Bosnia ho cercato di guardare negli occhi tanti profughi: uomini giovani, meno giovani, ragazzi, donne, bambini. Non è facile, almeno per me. Non è facile immergersi, rapidamente, in una relazione con chi vive in situazioni drammatiche ed è, spesso, di cultura diversa.
La donna di Baghdad
In uno sguardo, fra tanti, ho colto tutto il dolore della condizione di profugo: lo sguardo di una donna di Baghdad. L’ho incontrata a Bihac, nella parte nordoccidentale della Bosnia ed Erzegovina, con le sue quattro figlie che avevano tra i diciotto e gli otto anni, nell’ex casa dello studente Borici, dove giacciono circa seicento migranti.
La sua storia inizia appunto a Baghdad, capitale dell’Iraq, da dove era fuggita tre anni prima in seguito all’assassinio del marito e del figlioletto tredicenne per opera dell’ISIS. Poco dopo ha ricevuto un ordine formale, scritto, nel quale le si ordinava di lasciare il Paese con le figlie entro 72 ore, «perché impura in una terra pura».
La donna non aveva amici o parenti in Europa, non sapeva dove andare, ma sapeva che, insieme alle sue figlie, doveva andare, muoversi, vagare in mondo ostili o indifferenti.
È questo il cuore della condizione di profugo: andare, continuare ad andare, senza sapere dove. Dopo un lungo, terribile viaggio, pieno d’insidie che di certo non sempre hanno potuto evitare, queste cinque donne sole tentano la rotta balcanica. Sono catturate al confine tra Montenegro e Bosnia, picchiate, rinchiuse in prigione per 36 ore e poi respinte nuovamente in Montenegro finché, dopo cinque tentativi, sono riuscite ad arrivare a Bihac, dove le ho incontrate. Oggi le e le sue figlie, dopo un altro tentativo di viaggio, si trovano in un campo di profughi nei pressi di Zagabria.
La fototessera
Guardate questa fototessera. L’ho trovata nel febbraio di quest’anno su un sentiero del “game” (così i profughi chiamano il viaggio verso l’Unione Europea, nel significato di mettersi in gioco, un gioco che può essere anche mortale), in una montagna boscosa ai confini tra Bosnia e Croazia, a una decina di chilometri da Bihac, capoluogo del cantone Una-Sana.
Nonostante il piccolo format, sono gli occhi ad avermi colpito: occhi senza nome, di qualcuno che non conosco e che non conoscerò mai.
Un volto macchiato di fango che ci fissa da una foto formato tessera fatta per dichiarare un’identità, forse è stata scattata in Pakistan o in Afganistan, forse è stata perduta o gettata di proposito: i migranti distruggono quei documenti che potrebbero compromettere il loro viaggio, come i documenti di un Paese in cui sono stati fermati e poi rilasciati o fuggiti e a cui potrebbero anche essere riportati. Spesso se ne trovano i frammenti nei sentieri o passaggi di confine. Ma certo non distruggono i documenti originari d’identità.
In un certo senso, questo sono gli occhi di qualcuno che non c’è, ma che fissa la propria identità in un documento ufficiale che la garantisce, uno dei compiti fondamentali di uno Stato. Quando ci si sottrae a questa identità – come il richiedente asilo è costretto a fare, perché il suo ingresso in uno Stato e spesso la sua uscita dallo Stato di appartenenza non sono autorizzati – si spezza l’identità fra uomo e cittadino, si mette in crisi di fatto l’autorità dello Stato, di ogni Stato: per questo i richiedenti asilo sono inquietanti, scriveva il filosofo Giorgio Agamben.
Quando ho raccolto dal fango questa foto, mi sono chiesto: dove sarà questo giovane uomo? Lo stato di conservazione della foto indicava che, d’inverno, non poteva esser caduta ai margini della sterrata molto tempo prima, al massimo una settimana. Oggi quando la guardo mi chiedo: sarà in Germania, o nei Paesi nordici, tra le mete preferite dai profughi. Potrebbe essere anche morto senza lasciare traccia. Anche per essere morti è necessaria un’autorità che lo dichiari e i morti “ufficiali” lungo la rotta balcanica sono 216, dal giugno del 2013. Saranno sicuramente ben di più, ma non è nell’interesse delle forze dell’ordine divulgare certe notizie, né in particolare della polizia croata, la più violenta, responsabile di continui respingimenti.
Il filo spinato
Abbiamo costruito barriere fisiche, muri come quello che un tempo divideva Berlino, oppure come quello che oggi separa Messico e USA, o ancora il muro terribile (e persino illegale, secondo la legge internazionale) costruito dallo Stato d’Israele nei territori occupati della Cisgiordania.
Muri che sono la materializzazione di una barriera ben più profonda che insegue il migrante, anche quando ha passato il confine, nella sua condizione giuridica, sociale, e più profondamente, nella sua condizione esistenziale. Anche migranti che hanno ottenuto la cittadinanza di un Paese europeo e magari un certo successo economico o sociale, rimangono sempre su questo confine profondo, rimangono persone di confine. Io sono il confine: afferma l’iraniano Sharam Khosravi, un migrante che pure ha avuto “successo”, diventando cittadino svedese e docente universitario.
La bambina con lo zainetto
Camminando su questi sentieri di confine, soprattutto sui sentieri della Plješevica, la montagna boscosa sopra Bihac, si vedono continuamente fra i cespugli ai margini della strada, oggetti che i migranti di passaggio abbandonano per alleggerirsi o perché inutili o rovinati.
Colpiscono soprattutto i vestiti infantili, anche di bambini molto piccoli: tutine, cuffiette, zainetti, scarpine, persino una carrozzella.
Quando penso ai bambini migranti, mi torna alla mente il ricordo di un pomeriggio dello scorso maggio. Mi trovavo in un rifugio vicinissimo al confine croato: un edificio devastato dal continuo passaggio dei migranti, che lo usano per dormire e rifugiarsi dal maltempo, provocando anche un certo malcontento fra i cittadini di Bihac, che in precedenza lo usavano per fare scampagnate. Di fronte al rifugio, c’è un piccolo monumento che ricorda combattenti croati uccisi durante la terribile guerra degli anni Novanta: intorno, si trovano i cartelli rossi che denunciano la presenza di mine. Questo luogo contiene un’eccezionale densità storica di sofferenza umana, lungo quella che era una volta una strada forestale, improvvisamente vedo uscire dalla boscaglia un uomo con un bimbetto in spalla e poi delle donne con bambine e bambini e infine circa una ventina di persone. Ci dicono di essere curdi, curdi di Kobane. Ci colpisce la quantità di bambini, tra i quali una bambina con un orsacchiotto legato allo zainetto. A prima vista può quasi sembrare la gita di un gruppo di famiglie. Le donne e alcuni uomini meno giovani hanno però lo sguardo fisso, le facce stanche. I bambini ci guardano: i loro occhi sono seri, ci interrogano sulla nostra presenza. Gli uomini più giovani e determinati ci sorridono, come fanno spesso i migranti a chi si interessa di loro.