La vita di Basir Ahang, 34 anni, hazara proveniente dall’Afghanistan, giornalista, scrittore, documentarista, attore, è un continuo sdoppiarsi. Diviso tra radici e affetti: «Quando sono arrivato in Italia ero come un bambino, non conoscevo nessuno e non parlavo. Oggi la mia vita è qui, il mio Paese è l’Italia. Ma mi mancano i miei genitori e mio fratello che sono rimasti in Afghanistan. Loro non fanno parte della mia nuova patria». Se non bastasse, pure sul certificato di nascita è come se ci fossero due Basir: «Sono nato a Kabul ma sui documenti risulta che sono nato a Ghazni, da dove vengono i miei genitori. In Afghanistan non c’è un archivio digitale. Per comodità le nascite vengono registrate nei libri del luogo di residenza dei genitori».
Nel ’92 cade il governo filocomunista, poi inizia la guerra civile e al governo vanno i talebani. «Nel ’98 scappiamo verso il Pakistan. I talebani controllano le strade. Ad un posto di blocco uno di loro tiene in una mano una sigaretta di hashish e nell’altra un kalashnikov. Mi punta la mitra in faccia e mi dice: «Qui siamo in Afghanistan, la terra degli afghani. Tu invece sei un hazara infedele cosa fai qui?». Io non rispondo.
«Era l’anno in cui il portavoce dei talebani aveva annunciato il seguente messaggio a coloro i quali non erano considerati afghani: “I tajiki in Tajikistan, gli uzbeki in Uzbekistan e gli hazara al guristan, ‘cimitero'”. Durante quel viaggio ho visto migliaia di corpi di hazara uccisi. Tanti bambini, tante donne, ricordo il colore dei loro vestiti, la posizione dei loro corpi. Avevo 14 anni».
I talebani non riescono ad entrare a Ghazni. Gli hazara oppongono resistenza ma non possono uscire. Morire di fame non è un modo di dire quando un sacco di farina costa 5 milioni e mezzo di afghani e lo stipendio di un contadino arriva a malapena a 750 mila afghani al mese. Tre anni dura l’esilio della famiglia Ahang. Nel 2001 dopo le Twin Towers gli americani scatenano sull’Afghanistan l’offensiva Enduring freedom. Basir torna a Kabul per finire gli studi. Il liceo e poi l’università dove si laurea in Storia e letteratura persiana. In quegli anni inizia la sua ennesima vita. L’associazione Internews forma centinaia di ragazzi che vogliono diventare giornalisti. In tutto il Paese vengono messe in onda 28 radio libere.
Lui diventa il direttore di Radio Malistan, dal nome del distretto dove trasmette. Per guadagnare qualcosa si inventa giornalista anche di una radio fm. Lo stipendio è da niente, 50 dollari americani al mese. «Per fortuna stavo al dormitorio universitario. Con quei soldi non si poteva certo vivere». Nel 2006 inizia a collaborare con gli inviati di Repubblica in Afghanistan. Il suo è un lavoro prezioso. Scova notizie, introduce i giornalisti in una realtà che non conoscono.In quello stesso anno i talebani rapiscono il fotografo e giornalista italiano Gabriele Torsello. Da bravo stringer Basir Ahang raccoglie informazioni giornalistiche.
Quando le forze internazionali riescono a liberare il fotoreporter e uccidono uno dei capi talebani, lui finisce nella lista nera. «La prima telefonata in cui minacciavano di uccidermi ho pensato che fosse uno scherzo. Al ministero dell’interno mi dissero che era una cosa seria. Mi diedero un numero di telefono da chiamare in caso di emergenza. Se mi avessero puntato un kalashnikov addosso ci avrei fatto molto poco con quel numero di telefono». Manco a dirlo l’occasione si presenta poco tempo dopo. Davanti all’università è in compagnia di un gruppo di amici. Arriva un’auto con finte insegne della polizia. Si abbassa il finestrino.
Spunta la canna di un Ak47 ma per fortuna arriva un’altra auto della polizia, questa volta vera. Gli amici si sono già dileguati. Non gli ci vuole molto per capire che non può stare più a Kabul. Per tre mesi si rifugia in Iran. Poi con un visto da studente e un C130 militare arriva in Italia a Perugia.
«Ho scelto l’Italia per caso. Solo perché avevo conosciuto quei giornalisti. Anche l’ambasciata australiana voleva aiutarmi». Ci mette più di un anno per ottenere asilo politico. Nel frattempo Basir finisce a Udine solo perché aveva degli amici. Per tirare avanti collabora con la BBC persiana e con altri giornali internazionali. Si occupa soprattutto di rifugiati.
A Venezia per caso viene a sapere dell’inferno di Patrasso, dove centinaia di uomini e ragazzini corrono dietro ai Tir per infilarsi sotto il pianale e cercare di arrivare in Italia con una delle navi che fa rotta verso Bari, Brindisi o Venezia. C’è chi sotto le ruote di quei camion ci muore, come un bambino hazara di 13 anni rimasto stritolato appena sbarcato al porto di Venezia. C’è chi tenta il viaggio tre o quattro volte. Se la polizia italiana si accorge dei clandestini li rispedisce sulla stessa nave verso Patrasso senza troppe cerimonie. «Ho visto ragazzini afghani, curdi, iraniani, aspettare che il semaforo diventasse rosso per infilarsi sotto ai camion. E ho visto come venivano rispediti a Patrasso. Ammanettati nei bagni della nave senza possibilità di muoversi. Quando ho visto le immagini delle prigioni americane di Abu Ghraib ho pensato che non fossero molto diverse». Da quell’esperienza Basir Ahang trae il documentario La voce di Patrasso, trasmesso anche dalla televisione italiana. Basir si occupa anche di poesia e di cinema. In veste di attore ha recitato nel cortometraggio del regista Amin Wahidi L’ospite, vincitore del premio Città di Venezia 2014. Nel 2017 partecipa alla preparazione del film di Costanza Quatriglio Sembra mio figlio, sul genocidio e la diaspora hazara. Dopo vari cast la regista si convince che lui abbia la faccia giusta e finisce per diventare il protagonista dell’opera pluripremiata. «Sono orgoglioso di aver contribuito a fare conoscere l’odissea del mio popolo che è stato più volte sterminato senza che lo sapesse nessuno». Il cinema, la televisione, gli articoli di giornale, i libri e le poesie oggi sono il suo pane quotidiano.
La sua vita è qui, come ripete più volte. Anche se non è facile. In Afghanistan non ci può tornare, per il coraggio dei suoi articoli. I suoi genitori non riescono a venire in Italia perché non gli concedono il visto. «Ho visto mia madre solo una volta in dieci anni. Ho provato tre volte a farla venire in Italia. Avevo comperato il biglietto aereo e pure prenotato l’hotel. L’ultima volta dall’ambasciata italiana di Teheran mi hanno detto che non le concedevano il visto temporaneo di ingresso perché “il motivo non è chiaro”».
Nelle molte capriole della sua vita adesso Basir Ahang si occupa anche dei programmi culturali del ristorante Samarkand. Ma la sua vita è un’altra: «Io voglio scrivere e raccontare. Voglio che si sappia cosa è successo agli hazara perché non succeda mai più». Nel 2015 è uscito il suo primo libro di poesia in italiano. Si chiama Sogni di Tregua, Gilgamesh Edizioni. Molte delle sue poesie sono state tradotte in inglese e spagnolo. In una Basir Ahang si racconta così: «Esule vagabondo / malinconico ma ardito / con un bagaglio di racconti di guerra e dolore».