Senza troppa fantasia, l’espressione “culle vuote” rimbalza sui giornali e in tv all’uscita di ogni nuovo report demografico Istat da una decina d’anni. Non ha fatto eccezione – anzi – il nuovo report con i dati 2018: si parla di 439.747 nascite tra le famiglie italiane, cioè ben 18.000 in meno (-4,0%) dell’anno precedente (record negativo dall’Unità d’Italia, secondo alcuni quotidiani). Se di eccezioni si vuol parlare, l’unica rimasta è la “ricca” provincia autonoma di Bolzano: la sola rispetto a tutte le regioni italiane dove il tasso di natalità supera ancora quello di mortalità. Un declino demografico che dal 2008 prosegue più o meno di pari passo a quello del Pil pro capite, gettando una luce un po’ sinistra sugli equilibri del sistema, in primo luogo previdenziali.
La popolazione italiana, lo sappiamo, ha smesso da tempo di crescere in base alla cosiddetta dinamica naturale, cioè grazie alla “sostituzione” di chi muore con chi nasce, scendendo in un anno di 235 mila unità (-0,4%) e nell’ultimo quadriennio di ben 677 mila, poco meno della popolazione di Bologna e Firenze messe assieme. Senza l’apporto degli immigrati, il calo dei residenti sarebbe stato molto più significativo, di circa 1 milione e 300 mila unità, ma anche il saldo positivo dell’immigrazione ormai non basta più a colmare il gap. Così, per il quarto anno consecutivo, la popolazione dei residenti si è ridotta, scendendo a 60.359.546 unità, 124 mila (-0,2%) in meno del 2017.
[infogram id=”e946b3bb-02ee-479e-ac46-d2a789116eb0″ prefix=”XnH” format=”interactive” title=”Copy: totale rimesse”]
Fin qui il quadro generale, ma torniamo alle culle. Fino a qualche anno fa la risposta al calo dei neonati italiani sarebbe stata prontamente individuata a livello mediatico: a compensare ci penseranno i futuri nuovi italiani, i bambini delle famiglie dei lavoratori stranieri, i figli degli immigrati insomma. Invece pare di no.
Dal 2013 infatti anche le “culle” dei bambini stranieri risultano costantemente in calo: quest’anno i neonati con genitori non italiani sono stati 65.444, il 15% circa di quelli italiani, ma il dato di tendenza (-3,8%) registra il segno meno, con una percentuale praticamente identica per i due gruppi demografici.
Può sembrare strano ma, anche alla luce del rallentamento dell’immigrazione femminile, il saldo negativo nel complesso non deve stupire. Guardandosi indietro, infatti, il tasso di fecondità, cioè il numero medio di figli per donna, è sceso in questi ultimi anni più rapidamente per le straniere residenti che per le italiane, passando per le prime da una media di 2,43 figli nel 2010 a 1,98 nel 2017. Un valore persino inferiore alla soglia di sostituzione naturale (2,1) e praticamente pari alla fecondità in un Paese come la Francia, considerato demograficamente attivo (rispetto ai valori occidentali) ma ben lontano dalla natività di Africa e Asia. Nello stesso periodo, per la cronaca, il tasso di fecondità tra le donne italiane passava da un modesto 1,34 a 1,23: uno dei più bassi in Europa assieme a Germania e Spagna.
La natività risulta in declino, sia pure in misura diversa, da almeno un decennio in tutta Europa, e non è più questione di passaporto.
È un fenomeno traversale con molte radici, tra cui sicuramente l’insicurezza e la disoccupazione giovanile nel vecchio continente. Come spiegava 10 anni fa, Fred Pearce, giornalista scientifico e pioniere delle crisi ambientali e demografiche: «Non mi aspetto che l’Europa sia una delle forze del futuro, ma il punto è che molte nazioni del continente rischiano di sparire, dall’Italia alla Germania, mentre l’invecchiamento è un processo inarrestabile: il XXI secolo sarà l’era degli anziani, però non possiamo esagerare su questa strada o ci faremo molto male».