Ouidad Bakkali, 33 anni, in Italia da 31, nata ad Agadir in Marocco, assessore alla Cultura e alla scuola del comune di Ravenna, è convinta che l’integrazione passi anche dalle parole: «Non ha più senso chiamarci immigrati di seconda generazione. Sono in questo Paese da quando avevo due anni. Meglio chiamarci italiani con background migratorio. Non è che si può andare avanti all’infinito, parlando di italiani di terza, quarta, undicesima generazione…».
Ouidad Bakkali, perché l’Italia?
«Mio padre partì per l’Europa negli anni Ottanta, come tutti per avere una posizione migliore. Da Tangeri si spostò in Spagna. Poi in Italia, prima in Veneto e poi qui a Casal Borsetti, una frazione di Ravenna. Con il ricongiungimento famigliare arrivammo io, mia madre e mia sorella».
Infanzia in un piccolo centro di provincia. È stata dura?
«Uno shock. Scuola materna dalle suore. Casal Borsetti fa duemila abitanti ma d’estate, d’inverno siamo pure molti meno. Mia madre dice che destavamo una certa curiosità. Ci consideravano marziani. Ci chiedevano se in Marocco avevamo i pomodori e le galline. Erano curiosi ma non ostili».
In casa che lingua parlavate?
«I miei genitori sono ancora molto legati al Marocco. In casa si parla arabo e berbero, mia madre era del Sud. Mia sorella grande parla arabo e berbero. Io parlo arabo e capisco il berbero. Mia sorella piccola che è nata qui capisce l’arabo. Il legame con la tradizione è ancora molto forte. A Natale, per dire, a casa facciamo i passatelli e il cous cous o la tajine. Fino a 16 anni sono tornata in Marocco tutte le estati. Dopo più sporadicamente per vari impegni di scuola o di lavoro. A dicembre mi sono sposata con un italiano. Qui ho tutti amici italiani».
È religiosa?
«Non sono religiosa. Non sono praticante. Non porto il velo. La mia famiglia è religiosa. La mia scelta è stata accettata con dignità da tutta la famiglia. I miei genitori sono molto aperti».
Studi e politica, le sue passioni…
«Mi sono laureata in Scienze Internazionali Diplomatiche a Forlì. Devo dare la tesi magistrale in Cooperazione internazionale. La passione per la politica è nata abbastanza presto, con la Sinistra giovanile degli allora Ds».
Siccome ho ottenuto la cittadinanza italiana solo a 22 anni, facevo politica ma non potevo votare. La svolta è arrivata con il Parlamento Europeo dei Giovani. Ho iniziato a 16 anni. È come il Parlamento europeo a cui partecipano giovani da tutta Europa e dall’Africa. Abbiamo scritto risoluzioni sulla guerra in Afghanistan e sugli ogm.
Il diritto al voto è una delle richieste importanti…
«Per i nuovi italiani il voto sancisce il proprio essere. È la chiusura del cerchio per far parte di una comunità a tutti gli effetti. Scegliere i propri rappresentanti politici è anche una cosa simbolica che ci tiene tutti insieme».
Poi è diventata assessore.
«Sono assessore di tutti i ravennati. Sono al secondo mandato, assessore da sette anni oramai. Mi occupo di questioni generali, non sono la rappresentante della comunità marocchina. Se ne parla da tanto, sarebbe importante finalmente poter far votare gli stranieri residenti almeno alle elezioni comunali».
Molti criticano il comune di Ravenna per aver dato un incarico così importante a una “straniera”.
«Dopo sette anni misuro la mia ingenuità di allora. Non mi aspettavo gli attacchi che sono poi venuti dalla destra. Non mi sono mai posta il problema che la mia diversità potesse essere percepita».
Sono in Italia da 31 anni, parlo ovviamente un italiano perfetto, non porto il velo, non ho segni che mi identifichino come una marocchina. Mi sono capitati anche episodi buffi. Impiegati pubblici allo sportello che mi parlavano più lentamente pensando di aiutarmi a comprendere quello che mi dicevano. Cose che in altri Paesi europei non mi sono mai successe.
Ma alla fine si sente più italiana o marocchina?
«Non c’è una percentuale che si possa calcolare. È un’identità complessa. Ma credo che a questo punto vada ridefinito il concetto di italianità».
Tanti nuovi italiani, soprattutto i più giovani, tendono a nascondere le proprie origini.
«Sì, è una cosa che deve far riflettere. Si cerca di nascondere la propria diversità per evitare di avere dei problemi. Se questo accade c’è qualcosa che non funziona nella società».
Si è parlato molto di lei sui giornali qualche anno fa perché il 13 novembre 2015 era a Parigi, in uno dei locali attaccati insieme al Bataclan. Quante volte le hanno chiesto: “Ma voi cosa fate, per fermare quello che sta accadendo?”.
«Poche, per fortuna. Ma a partire da questi episodi sono mancate alcune riflessioni. Sotto attacco è finita l’Europa che oggi è fatta da persone di tutto il mondo. Tra le vittime e i sopravvissuti c’erano persone di tutte le nazioni e di tutte le religioni. Il target non era il tipo di passaporto ma lo stile di vita. Non si è riflettuto abbastanza sull’identità europea. L’Europa è fatta di giovani che si muovono con l’Erasmus, è fatta di più culture e di più linguaggi. Non è che per essere identificato come italiano devi chiamarti per forza Antonio».
Lei che è assessore si sarà trovata a decidere di temi importanti come la libertà di culto nel suo comune. Ci sono regioni come la Lombardia dove fanno di tutto perché non si erigano moschee…
«A Ravenna c’è la seconda moschea più grande d’Italia. Includere è uno degli aspetti più importanti di questa città. Bisogna trovare un posto a tutti».