Nata a San Pietroburgo e creatrice in Italia del brand di abbigliamento Tailor’s Art Revolution T- Art Rev, Natasha Siassina ha fondato anche l’associazione Vitaru, che si occupa di dare assistenza legale e psicologica alle donne vittime di violenza. E tra i suoi tanti interessi, c’è anche quello dell’arte, sia italiana sia russa. «Sono nata nel Paese sbagliato», ci spiega, iniziando a raccontare di sé.

Perché il Paese sbagliato?

Perché sono nata in URSS, dove la curiosità era un difetto, dove porsi e porre delle domande era una insubordinazione all’ordine costituito. A scuola, finivo sempre dal preside.

«Mettevo in discussione tutto ciò che mi veniva detto, soprattutto sulla situazione economica che vivevamo. Dovevamo vivere in un Paese anestetizzato. Mio padre era un militare dell’aviazione e mia madre una traduttrice dall’inglese. Questo comportava una situazione per me insostenibile, eravamo sotto osservazione, sempre: per via del loro mestiere, non si potevano avere contatti con stranieri».

Quando ha iniziato a cercare una sua indipendenza economica?

«Prestissimo. Il primo business è stato portare sul mercato i jeans scoloriti che andavano di moda tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90. Riuscivo a comprare i jeans, li facevo scolorire e poi li rivendevo. Praticamente a sedici anni avevo già la mia prima attività. Inoltre, la moda è sempre stata una mia passione».

Quando ha deciso di lasciare la Russia?

«Ho conosciuto una ragazza italiana che viveva ad Algeri con la sua famiglia. Così sono andata ad Algeri e ci sono rimasta. Mi sono anche innamorata di suo fratello, che è il padre del mio primo figlio. Per parecchi anni non ho più voluto parlare russo, se non con i miei genitori. Mi esprimevo in francese e inglese».

E ad Algeri, che cosa faceva?

«Non riesco a non creare, a stare ferma. Mi hanno definita una donna dai mille progetti: in qualsiasi parte del mondo, riuscirei ad avviare una mia attività. In Algeria creavo abiti da sposa e da cerimonia, i matrimoni erano sontuosi e c’era mercato. Ma dopo due anni che vivevo lì, la situazione è diventata pericolosa e, con mio marito, siamo venuti in Italia».

Quando è nato il brand Tailor’s Art Revolution T- Art Rev?

«Appena arrivata in Italia, nel 1994, è nato mio figlio e ho aperto una partita iva per iniziare a lavorare per conto terzi. Avevo rapporti con brand famosi, davo molto lavoro ed è stata un’esperienza bella e faticosa. Poi, con l’arrivo della crisi, i committenti pretendevano di pagare sempre meno e sempre più tardi. Avendo anche la responsabilità delle persone che lavoravano per me, ho deciso di smettere, con la certezza di arrivare a creare un brand mio, e così ho fatto. Inoltre ero stanca di lavorare in un mondo in cui non esiste la condivisione delle idee. Ci ho messo due anni e ci sono riuscita. Nel frattempo, ho avuto due figlie dal mio nuovo compagno».

Le mie creazioni sono per donne che amano la comodità, come me. Alle mie sfilate, in passerella ci sono sempre donne che hanno una loro attività, cantanti liriche, artiste.

A questo proposito, come unisce l’amore per la moda con la passione per l’arte?

«Come ho detto, per parecchio tempo non ho più parlato russo, ma l’amore per l’arte e l’essere amica di molti artisti, mi ha fatto capire che posso essere un ponte tra l’arte italiana e quella russa».

Da cosa è nata l’associazione Vitaru?

«Dopo la mia separazione, ho deciso di aiutare le donne che essendo straniere non riuscivano tutelare non solo i loro diritti, ma anche quelli dei loro figli. Non è semplice vivere in un Paese che non è il proprio, quando si devono affrontare questioni legali che affondano radici in una cultura diversa».

Pensate che esistono circa trecento agenzie matrimoniali che si occupano di questo. Ipotizziamo che, per ciascuna, ci siano venti donne che, su Skype, conoscono il loro futuro marito. Se almeno dieci matrimoni vanno in porto, abbiamo tremila donne al buio.

«Cioè, donne che non sanno nulla del Paese nel quale arrivano. I problemi maggiori sono per quelle donne che vanno ad abitare in piccoli centri, dove magari non esiste una comunità del loro Paese d’origine, dove sono completamente sole, perché le famiglie sono a migliaia di chilometri e hanno molte volte difficoltà linguistiche. Ecco, in caso il matrimonio diventa una trappola, la loro situazione è peggiore perché non sapendo come rapportarsi con le autorità, subiscono violenze o fanno errori irreparabili, come scappare con i figli e ritrovarsi condannate in Italia e nel loro Paese d’origine dove pensavano di potersi tutelare».

Come arrivano a voi queste donne e come le aiutate?

«Quasi tutte arrivano con il passaparola e grazie ai social. Per aiutarle, abbiamo creato una rete di legali e psicologi che ci aiutano a supportarle, a dare loro forza. È importante aiutarle a districarsi nella legislazione italiana per ottenere sia la separazione sia un luogo protetto dove ricominciare la propria vita. Come sappiamo, la violenza nei confronti delle donne non ha confini, ma se persino una donna italiana ha difficoltà, nonostante la famiglia e il contesto a lei noto, cerchiamo di immaginare come possa vivere la stessa situazione una donna che qui è completamente sola, il cui quotidiano passa attraverso quello del marito, come può fidarsi? Sono donne completamente abbandonate a se stesse».

Vitaru però non aiuta solo donne straniere.

«Siamo vicini a tutte le donne in difficoltà, italiane e straniere. Per me Vitaru è importante, ogni storia la vivo sulla mia pelle, non riesco a prenderne le distanze. Anche il team della Vitaru è composto da persone eccezionali e qualificate, la mia fortuna è lavorare con loro».