Maali Atila, 25 anni, torinese, genitori marocchini, ha le idee chiare sul suo futuro ma non vuole dimenticare le sue radici: «Sognavo l’Accademia militare, volevo diventare pilota. Ma quando mi hanno detto che avrei dovuto rinunciare al passaporto marocchino ho detto no. E così mi sono iscritta al Politecnico, dove sto per laurearmi in Tecnologia e applicazioni nucleari. Sono italiana perché sono nata qui e i miei genitori avevano già la cittadinanza. Quando ci definiscono immigrati di seconda generazione non capisco. Io non sono emigrata da nessun Paese. Sono nata a Torino».
Maali Atila, nata appunto a Torino da genitori marocchini.
«Mio padre è un tecnico. Mia madre ginecologa. Hanno deciso di venire in Italia alla fine degli anni Ottanta. C’erano già le mie zie. Poi sono nata io».
Essere italiana di origini marocchine alla fine degli anni Novanta era un problema ?
«No, i problemi sono arrivati nel decennio successivo. Quando la presenza degli stranieri è aumentata a dismisura, soprattutto a Torino. Fino ad allora essere di origine straniera destava solo curiosità. I miei compagni di scuola mi chiedevano come mai non frequentassi l’ora di religione. Dopo, quando si sono verificati i primi episodi di criminalità dovuti agli stranieri, la città ne ha risentito. È stato allora che hanno iniziato a guardarmi. Entravi in un negozio e le commesse ti tenevano d’occhio. Un atteggiamento dovuto alla paura della gente. Ma il razzismo è un sentimento che ha più facce».
In che senso?
«Mio padre è di origini berbere. Mia madre è araba. I berberi sostengono di essere la popolazione originaria del Marocco che è stata poi colonizzata dagli arabi. I genitori di mio padre volevano che sposasse una berbera. C’era già la sposa designata. Convolare a nozze con una donna araba è come se avesse sposato una straniera».
Parla la lingua dei suoi genitori? È legata alle sue origini?
«Parlo solo l’arabo. La lingua berbera è molto complicata. Ogni estate torno in vacanza in Marocco. Ma sono stata anche tre mesi nel deserto, da dove arrivano i berberi».
Lei è cittadina italiana?
I miei genitori avevano già ottenuto la cittadinanza prima che nascessi quindi è stata estesa anche a me. È una delle cose più importanti per noi. Altrimenti viviamo una situazione strana per cui non siamo né del tutto italiani né stranieri. Veniamo definiti immigrati di seconda generazione. Ma io non sono emigrata da nessun Paese, sono nata a Torino. I miei nonni, i miei genitori hanno preso un barcone o un aereo per venire in Italia. Noi siamo semplicemente nati qui, siamo italiani. Anche il diritto al voto è importante. Ho 25 anni, ho potuto votare poche volte ma l’ho sempre fatto. È uno dei pochi modi che abbiamo per avere una rappresentanza riconosciuta.
Molti nuovi italiani, soprattutto tra i più giovani, cercano di nascondere in ogni modo le loro origini. Pensano che sia più facile esser accettati…
«È una cosa che dipende molto dal carattere di ognuno. Ma non ci si può vergognare delle proprie radici. Se non ci fossero le origini non si sarebbe quello che si è. Ognuno ha le sue tradizioni. Io delle mie origini non mi sono mai vergognata. Quello che sono, come ragiono, quello che mangio, dicono tutto di me e delle mie origini. Da tempo collaboro con Amece, l’Association Maison D’Enfant pour la Culture et l’Education. È una associazione culturale che vuol far conoscere il Marocco ai marocchini e agli stranieri. Organizziamo eventi di vario tipo, anche sportivi. È un modo per preservare le nostre radici».
È religiosa, va in moschea?
La religione è una cosa che fa parte di noi stessi ma non vado in moschea. Anche se alla fine il Ramadan è come il Natale, lo si festeggia sempre. Ma a casa, mia madre non ha mai cucinato la carne di maiale. Io poi sto con un ragazzo cristiano.
Problemi per questo? In casa, i genitori di lui…?
«In casa no. Né nella sua né nella mia. In questo posso dire di essere stata molto fortunata. Ma è stato un problema nella comunità. Niente di diretto ma la comunità parla sempre e sembra che ognuno si faccia i fatti degli altri. Anche se questa relazione in casa viene accettata, la gente ti guarda e commenta. A Torino poi, dove ci sono tanti musulmani, tanti marocchini, non fanno altro che guardare. È anche questa una forma di razzismo strisciante. Ma alla fine ti abitui all’idea e io penso che ognuno debba essere libero di fare quello che vuole».
Lei frequenta un corso di laurea in Tecnologia e applicazioni nucleari.
Nella mia vita ho sempre fatto scelte molto maschili. Alle superiori studiavo in un Istituto aeronautico. In classe venti maschi, io unica donna. Volevo fare anche l’Accademia aeronautica ma poi ho scoperto che avrei dovuto rinunciare alla cittadinanza marocchina. Non esistono trattati bilaterali tra i due Paesi. Si pensa che in caso di guerra uno non possa avere la doppia cittadinanza che lo costringerebbe a scelte difficili. Anche se avessi deciso di fare l’Accademia in Marocco, sarebbe stata la stessa cosa. Alla fine ho preferito rinunciare alla scuola. È stata dura fare questa scelta. Ma l’ho fatto soprattutto per me. Rinnegare la mia cittadinanza marocchina voleva dire rinunciare a una parte molto importante di me».
Così è finita al Politecnico a fare anche lì la mosca bianca…
Nel mio corso ci sono trenta studenti, le ragazze sono sei e solo io sono di origini straniere. Ma non fa niente, va bene così. Se uno vuole raggiungere un obiettivo, lo raggiunge in qualsiasi circostanza.
Da grande cosa vuole fare? Pensa di rimanere in Italia, andare all’estero, magari in Marocco?
«Non mi sono ancora posta il problema. Oggi mentre frequento l’università lavoro come educatrice nei centri per gli stranieri. Sono a contatto solo con i minori. La cosa più brutta che gli sento dire è che non hanno più sogni. Io guardo invece ad ogni opportunità che mi potrebbe offrire la vita. Ma credo sia molto difficile pensare che il mio futuro possa essere in Marocco».
Perché?
«Un conto è andarci in vacanza. Lo faccio tutti gli anni. È un Paese bellissimo. Un conto è viverci e viverci da donna. Sarebbe completamente diverso. Non credo che ce la farei. Per un problema di mentalità dei marocchini soprattutto. Anche se è uno dei Paesi africani più avanzati, per una donna sarebbe come tornare indietro di 50 anni. Figuriamoci una donna con il mio titolo di studio. Anche in Italia c’è una specie di razzismo tra uomo e donna. Ma in Marocco è molto più accentuato. In Marocco le donne ancora oggi sono destinate a fare figli, ad accudire alla famiglia e a non avere una carriera. E poi a dirla tutta a me Torino piace. È il mio nido. Ma so che in Italia non c’è futuro. Ci sono poche risorse. E alla fine c’è poca speranza».
Questa intervista è stata realizzata in collaborazione con l’associazione Nuovi Profili con cui NuoveRadici.World ha una partnership.