Mentre racconta della propria vita, Karima ha la voce dolce e il tono delicato di chi è abituata a rispettare gli altri e non vuole essere invadente. Quando canta, però, si trasforma in una pantera e la sua arte, che sia in forma di musica, scrittura o fumetto, lancia messaggi che non lasciano spazio ai convenevoli. L’hanno spesso definita la versione italoliberiana di M.I.A., l’artista di origini tamil con la quale ha in comune l’atteggiamento da “cattiva ragazza”, i versi di denuncia e il sound worldbeat. Il suo stile è influenzato dalla musica afro, che innesta sul talento da beatmaker mischiato a uno spirito funky, ma lei rivendica un’identità che, partendo dalle tante influenze, punti con determinazione alla libertà espressiva.
L’infanzia
Anna Maria Gehnyei è nata a Roma da genitori liberiani, arrivati nel 1978 pensando di fermarsi in Italia solo per poco. Invece, quando negli anni successivi è scoppiata la guerra civile in Liberia, non si sono più mossi e sono diventati sempre più attivi nell’ambito della comunità liberiana, fino a diventarne un punto di riferimento. «Mio padre è stato uno dei primi liberiani a entrare in Europa e mia madre è stata per anni presidentessa della comunità. Non c’è liberiano che non sia passato da casa mia» dice con orgoglio Karima. A proposito della sua famiglia, racconta di avere una gemella e una sorella più grande, che però è rimasta in Liberia quando i suoi hanno lasciato l’Africa. «L’abbiamo recuperata quando aveva 13 anni e al momento del nostro incontro ci siamo trovate di fronte due vite incredibilmente diverse: io nata a Roma e lei, invece, cresciuta con mia nonna durante la guerra. Tra noi comunicavamo in pidgin english, che è la mia lingua madre».
Le prime canzoni
In realtà Karima è andata in Liberia per la prima volta solo nel 2013, poco prima dell’uscita del suo album d’esordio 2G, che già nel titolo affronta la questione delle seconde generazioni. «È un’esperienza difficile da descrivere a parole. Mi sono trovata in una terra che non conoscevo di persona ma che sentivo totalmente mia. È stata una rinascita, anzi, forse prima non mi ero mai sentita veramente nata». Subito dopo questo viaggio alle origini è arrivata l’ispirazione per scrivere il primo disco. La musica è stata per Karima un mezzo naturale per esprimere le proprie idee anche perché ha sempre fatto parte del modo di interagire nella sua famiglia, nonostante i genitori non siano musicisti.
Ne è nato un album intenso, di pancia e di denuncia, che parte con un pezzo dal titolo inequivocabile, Bunga Bunga, e prosegue con altre tracce ugualmente affilate, come Refugees e Orangutan, che rievoca l’episodio dell’insulto di Roberto Calderoli a Cécile Kyenge, allora ministro dell’Integrazione.
La vita di Karima ha sempre gravitato attorno alla questione delle origini, sin dall’infanzia, quando suo padre le ha fatto conoscere la miniserie Radici, tratta dal classico afroamericano degli anni Settanta, che poi ha riguardato più volte, puntualmente, quasi fosse un rito religioso. Nel 2017 ha partecipato a un progetto di Amnesty International Italia in collaborazione con History Channel, realizzato in occasione dell’uscita del remake della serie per promuovere la lotta contro ogni forma di schiavitù e ha creato insieme ad altri autori la canzone Roots.
Da Malala a Black Panther
Nel 2018 è arrivato l’ep Malala, in onore dell’attivista pachistana Malala Yousafzai, ma non solo. «Dopo l’album 2G, in cui volevo parlare di origini, in Malala mi sono focalizzata sulla femminilità, sulle potenzialità dell’essere donna a prescindere dalla provenienza geografica».
Malala per me è, simbolicamente, una donna sciamanica con dei poteri che forse neanche si rende conto di avere. Oltre a Malala Yousafzai, mi sono ispirata anche ad altre donne forti che ho avuto la fortuna di conoscere, come il premio Nobel per la pace Leymah Gbowee, una figura carismatica e di grande influenza, attiva nel movimento pacifista femminile.
L’ep e il video della canzone Malala sono stati creati all’interno della John Cabot University di Roma, dove Karima si sta laureando in Scienze Politiche e in Scienze della Comunicazione, dato che il sistema dell’università americana permette un doppio indirizzo. Va molto fiera di questo lavoro costruito con grande consapevolezza artistica e strumenti tecnici di alto livello, così come della sua esperienza universitaria della quale parla come di un bellissimo viaggio.
Nel 2018 Karima si è cimentata anche con la scrittura, collaborando al saggio Il genere errante, uscito per Agenzia X a cura di Marco Philopat e Lello Voce. A questo testo collettivo, che indaga sulla specie umana come genere viandante attraverso la musica e il dissenso, Karima ha partecipato con un capitolo sulle seconde generazioni. In sintesi, il nodo da sciogliere è: la doppia identità aggiunge o toglie? «Dopo essere passata attraverso varie fasi di pensiero, oggi credo che l’identità venga da dentro di noi. Nel mio nome artistico ho scelto di aggiungere 2G, che sta per seconde generazioni, in un primo momento per sottolineare quell’etichetta che ci era stata data con una connotazione negativa. Oggi, invece, in 2G vedo racchiusa la mia identità di italiana, che reputo una condizione di una forza indescrivibile, sollecitata anche da alcuni studi che sto approfondendo ultimamente. Da un po’ di tempo mi sono concentrata sulle tematiche dell’afrofuturismo femminista, arrivato al grande pubblico grazie al film Black Panther.
Il punto è acquisire la consapevolezza di non sentirsi più vittima, di una condizione di libertà che si può alimentare con la ricerca costante. Nel momento in cui non ti lasci opprimere dalla diversità, ne può nascere qualcosa di unico.
In questa direzione va anche il progetto in cantiere al momento, Italiens (volume 2), un fumetto creato in origine da Karima per un esame universitario che testimonia storie vere di discriminazione ma presentate con ironia. Il volume 1 ha avuto un riscontro molto positivo, i ragazzi di seconda generazione si sono riconosciuti ed emozionati. «Se tieni dentro la rabbia senza condividerla con gli altri, si trasformerà in veleno. Credo che la forza stia nel trasformare il vittimismo in qualcosa di positivo e l’arte è maestra in questo, è un modo per portare le informazioni alla coscienza».
Foto: Kicca Tommasi