Jasmine Abdulcadir, ginecologa responsabile dell’Unità Urgenze di Ostetricia e Ginecologia dell’Ospedale Universitario di Ginevra ha 36 anni. Il 6 dicembre ha tenuto una conferenza al TEDxPlaceDesNationsWomen in cui ha raccontato la sua  battaglia contro le mutilazioni genitali. Figlia di una coppia mista, ci ha scritto la sua storia. Un’eccellenza che non ci è sfuggita.

Sono italiana perché sono nata a Firenze e mia madre è italiana, sono somala perché lì ci sono le mie radici e quelle di mio padre. Non parlo il somalo, ne capisco solo alcune parole e in uno dei miei due Paesi di origine ci sono stata solo una volta per un mese quando avevo due anni; però sono cresciuta a contatto con le due culture e, fin da piccola, i miei genitori mi hanno detto che ero italiana e somala e dovevo considerarlo una grande ricchezza.  Il 9 novembre a Ginevra, dove vivo da nove anni e dove sono responsabile dell’Unità Urgenze di Ostetricia e Ginecologia dell’Ospedale Universitario, sono stata insignita dell’Onorificenza di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. L’onorificenza mi è stata conferita dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e consegnata in una cerimonia davanti all’Ambasciatore Gian Lorenzo Cornado, Rappresentante Permanente d’Italia presso le Nazioni Unite a Ginevra. A trentasei anni è un riconoscimento importante che mi onora e mi emoziona come donna, come italiana, come somala e per il mio lavoro di medico con le donne che hanno subito mutilazioni genitali femminili. Un lavoro che conduco da anni, dal 2013 anche come consulente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

I miei genitori sono entrambi ginecologi. Mia madre è calabrese. Mio padre è somalo diventato poi italiano, uno dei pionieri della deinfibulazione, la chirurgia a favore delle donne infibulate. Qualcuno penserà che fosse inevitabile che io e mio fratello, che ha due anni meno di me, diventassimo medici come loro. A casa però non ci hanno mai spinto. Anzi dicevano che sarebbe stata molto dura. Dopo la laurea ho vinto il concorso per la specializzazione a Firenze, ma si è poi aperta la prospettiva di venire qui a Ginevra. Una delle tante sedi dove avevo fatto domanda. Non è stata una scelta facile. In Italia avevo un contratto per cinque anni, a Ginevra solo sei mesi. Ma ho fatto la cosa giusta e sono ancora qui.

Avevo scelto Ginevra per le possibilità che mi dava l’Ospedale Universitario e perché conoscevo bene il francese avendolo studiato al liceo e avendo fatto l’Erasmus in Francia durante l’Università. Mi è sempre piaciuto studiare le lingue e ho studiato anche l’inglese e lo spagnolo. Non ero mai stata prima a Ginevra. Il primo impatto è stato positivo. È una città colorata, il 40% degli abitanti sono stranieri che vengono da tutto il mondo. Magari per il mio cognome mi fanno controlli più accurati in aeroporto e forse ho dovuto aspettare un po’ di più il permesso di soggiorno ma per il resto non ci sono problemi. L’ospedale è molto ricettivo, la meritocrazia esiste, non si viene ostacolati anzi vengono forniti strumenti per andare avanti. Episodi di razzismo vero non ne ho mai vissuti, né qui né in Italia. Una sola volta alle scuole elementari mi hanno detto “brutta negraccia!”. Da bambina facevo pattinaggio artistico, non erano abituati a pronunciare correttamente il mio cognome e al massimo destavo qualche curiosità. In ospedale a Ginevra è capitato di non essere riconosciuta come medico ma non per il colore della mia pelle. Mi vedono giovane e donna e qualche paziente ha pensato che io fossi un’infermiera. Certo, leggere da qui di certi episodi di xenofobia e razzismo che avvengono in Italia mi addolora. L’Italia non è mai stata così. Queste cose sono il frutto dell’ignoranza e della mancanza di rispetto della diversità.

Dal 2010 ho aperto in ospedale l’ambulatorio dove eseguiamo interventi di deinfibulazione e ricostruzione del clitoride ma soprattutto offriamo cure, informazioni e terapia psicosessuale alle donne con mutilazioni genitali e lavoriamo per prevenire la pratica nelle generazioni future. Molte delle nostre pazienti hanno vissuto altre esperienze traumatiche, durante la guerra o il percorso migratorio. In Svizzera risiedono 15 mila donne che hanno subito mutilazioni genitali. Eritree e somale soprattutto. Molti pensano che sia una pratica religiosa ma non è così, è una pratica tradizionale. Il 40% delle nostre pazienti per esempio sono di fede cristiano-copta, il resto di fede musulmana. Il mio non è solo un lavoro da medico, ma anche di mediazione culturale. L’intervento chirurgico di deinfibulazione o di ricostruzione del clitoride in sé dura trenta o sessanta minuti. Il lavoro più grande è ascoltare, informare, discutere su argomenti che spesso sono tabù o oggetto di miti e  pregiudizi e che riguardano la salute riproduttiva e sessuale femminile. Questi tabù esistono anche tra i sanitari e medici stessi. Per questo motivo lavoriamo moltissimo anche per formare medici, sanitari e studenti, non solo nel mio ospedale, ma in tutta la Svizzera e all’estero.