Quando vince urla l’inno di Mameli a squarciagola. Eusebio Haliti, 28 anni, 9 volte campione italiano nei 400 metri e nei 400 ostacoli, albanese e dal 2012 italiano. Un albanese in Italia negli anni Duemila… Uno tra i tantissimi…
«Sono nato a Scutari in Albania il primo gennaio 2001. Sono riuscito a rovinare il cenone di Capodanno a mia madre», dice ridendo.
«La mia è una storia anomala, forse pure fortunata. Non siamo venuti con un barcone. Siamo entrati con un regolare visto turistico».
Perché in Italia? Il Paese più vicino per scappare dalla fame?
«Non cercavamo fortuna nel senso letterale del termine. Mio padre è laureato, giocava a pallamano, insegnava educazione fisica e aveva un negozio di fotografia. Mia madre casalinga. Credevano che per il bene dei loro figli l’Albania non fosse il Paese adatto. In quegli anni c’era una specie di guerra civile nel mio Paese. Non ci si poteva stare era pericoloso».
In aereo fino in Italia e poi?
«No, prima in Grecia. Eravamo abituati a fare le vacanze all’estero. Mio padre voleva che il trasferimento non fosse traumatico. Voleva che fosse come un’altra vacanza. Poi siamo andati a finire a Zavattarello, un piccolo paese vicino a Pavia, dove già abitava nostro zio. Mio padre con il visto turistico non riusciva a trovare lavoro. A quei tempi però c’era una legge per cui un datore di lavoro poteva chiamare uno straniero a lavorare con lui. Così mio padre è tornato in Albania per farsi chiamare. Noi siamo rimasti qua. Per fortuna non c’è voluto molto».
In quegli anni nell’immaginario italiano gli albanesi erano il peggio che c’è. È stato difficile essere un bambino albanese in Italia?
«L’Italia era il Paese che vedevamo alla televisione. Per me, che avevo solo nove anni, era un’altra nazione come tante. Crescere in un paesino piccolo con neanche mille abitanti è stato una fortuna. All’inizio ti guardano tutti un po’ così ma poi, vivendo a stretto contatto, capiscono le tue buone intenzioni. Alla fine ci aiutavano, ci davano una mano».
Nemmeno qualche battuta razzista?
«Quelle anche oggi. Quando mi dicono: “Ah, sei albanese, non si direbbe”… Pensano sia un complimento ma a pensarci bene non è così», ride.
«Oppure quando mi dicono che parlo bene l’italiano. Se è per questo parlo bene anche il biscegliese, il dialetto di Bisceglie dove poi ho abitato per tanti anni».
In Italia ha studiato…
«Ho un diploma di Tecnico Industriale Elettronico. Ma il 25 febbraio discuto finalmente la tesi sul Diritto sportivo in Giurisrudenza».
Sa già quale sarà il suo futuro?
«Per ora penso a correre e all’atletica. Ma nella vita è sempre meglio avere delle altre chance».
Quando è diventato italiano? È stato difficile?
«L’ostacolo più grande è stata la burocrazia. La cittadinanza si poteva chiedere dopo 10 anni di residenza. Ma siccome ero entrato con un visto turistico un sacco di documenti non valevano. Avevo le pagelle che dimostravano che stavo in Italia da anni. È stata una sofferenza anche perché nel 2009 correvo tanto, ero tra i primi al mondo della mia categoria, ma non ho potuto partecipare ai campionati del mondo di atletica nella Repubblica Ceca».
Non poteva correre con la maglia dell’Albania?
«Mi sentivo più italiano. Atleticamente sono nato qui. Gli atleti albanesi nemmeno li conoscevo. Se avessi vinto una gara e avessi dovuto fare il giro della pista con la bandiera albanese, cosa avrei detto ai miei compagni italiani? Le gare sono importanti ma certi valori lo sono anche di più. Per me la Nazionale, la maglia azzurra, la bandiera hanno un significato importante. Mi sarebbe sembrato di mancare di rispetto a tutto quanto».
Quando vince, e lei ha vinto tanto, e suonano l’Inno di Mameli, lei lo canta?
«A squarciagola. Rappresenta la mia idea di unità del Paese. Così come mi riconosco nella Costituzione italiana. Condividerne i valori fa parte dell’essere una comunità».
E l’Albania cosa è per lei oggi?
«Quando i miei nonni erano ancora vivi ci tornavo più spesso. Là ci sono ancora i miei parenti, c’è la mia casa di Scutari, dove ho vissuto da bambino. Ma il mio futuro è lontanissimo dall’idea di tornare a viverci».
Nel 2012 è poi finalmente diventato italiano.
«È stata una vera sofferenza. Mi ero rivolto anche a un politico. Pensavo: siamo in Italia si fa così. Abitavo a Bisceglie. Il politico più vicino era Francesco Boccia del Pd. Lui ha fatto un’interrogazione parlamentare. Non su di me ma sui tanti casi di sportivi come il mio. Al governo c’era Silvio Berlusconi e ministro era Roberto Maroni. Sembrava che non si potesse fare niente. Poi si è scoperto che il Coni, per meriti sportivi, può percorrere corridoi preferenziali».
Come negli Stati Uniti dove per meriti artistici, intellettuali o sportivi è più facile ottenere la Green Card.
«Appunto. Prima succedeva solo per i calciatori. Bastavano due nonni ed erano italiani. Oggi si è più attenti».
Lei ha detto di sentirsi fortunato. Ma con l’attuale governo che vuole tenere chiusi i porti lei non sarebbe mai entrato in Italia.
«Nel 2019 è una cosa senza senso. Sono migliaia di anni che la gente si muove. Oggi qualunque migrante, pur sapendo di rischiare di morire ad attraversare il mare con un barcone, pensa: “Piuttosto che morire qua ci provo. Rischio di morire, ma sarei morto comunque nel mio Paese». Sono solo giochi politici. Noi stessi con i social siamo connessi ogni secondo con il mondo. A scuola bambini italiani e stranieri giocano come se niente fosse. Negli anni Novanta a Bari sono arrivati 20 mila albanesi in una volta sola. L’Italia non è affondata né morta. Come ci si può fermare davanti a 47 profughi su una nave?».
Come se lo spiega che vi osannano quando lei vince, quando vince la staffetta femminile italiana di atletica a Saragozza o le ragazze del volley, ma poi gli stessi che vi acclamano sono quelli che vi urlano “albanese torna al tuo Paese, africane tornate al vostro Paese”?
«Facile dire brave alle atlete di Saragozza o della pallavolo. Ma per un Eusebio che viene dall’Albania e vince la medaglia d’oro con la maglia azzurra c’è un altro albanese che si chiama Eusebio e chiede di entrare nel nostro Paese. Non farlo venire è solo un atto di bullismo».