Eltjon Bida ha lavorato in campagna, ha fatto il venditore porta a porta, il portiere d’albergo. E appena ha potuto ha ripreso a studiare. Ora conosce sei lingue, compreso il russo. Ha lasciato il suo lavoro in un albergo milanese per dedicarsi alla scrittura.
Cosa l’ha spinta a narrare la sua storia?
«Quando raccontavo ai miei amici la storia di come ero venuto in Italia e di come avevo ritrovato mio fratello scomparso, tutti mi dicevano: “Elty, dovresti scrivere un libro!”. Mi affascinano i libri che ti proiettano in un mondo diverso. Ammiro e nello stesso tempo invidio gli autori che hanno la capacità di creare quel mondo che ti coinvolge emozionalmente. Queste motivazioni mi hanno spinto a chiedermi: “Perché non provarci?”».
Lei parla e conosce ben sei lingue.
«In Albania, come tanti Paesi comunisti, c’era tanta ignoranza. Il nostro regime ci teneva rinchiusi tra le “mura”, vivevamo la nostra esistenza come ciechi, e non sapevamo niente, ma proprio nulla, di cosa ci fosse oltre i confini. A me piaceva tanto studiare, ma gli studi li ho dovuti lasciare a metà.
Nei primi anni Novanta, con la caduta del comunismo, i miei compagni di classe abbandonarono la scuola, perché arare la terra portava soldi. Studiare, invece, no. In quegli anni, si diceva che la scuola non ti avrebbe mai dato un futuro, perché erano tanti i laureati che non trovavano lavoro. Così, nel mio paese ero l’unico a continuare a frequentare la scuola.
Stessa cosa era successa anche ai paesi vicini. In ogni villaggio c’erano solo uno o due persone che andavano avanti con gli studi. Perciò, nella nostra classe, nel mio terzo anno di ginnasio, eravamo rimasti in soli sei allievi. Mi ricordo il giorno in cui arrivò la comunicazione dal preside, spiegava che essendo rimasti in pochi, avrebbero chiuso alcune classi. Se avessimo voluto continuare gli studi, dovevamo andare nella città di Fier, due ore lontano con il pullman da casa mia. Per me la lontananza non era un problema, ma andare a scuola così lontano, non era sicuro. Nei primi anni Novanta in Albania vi erano molti disordini, si erano create diverse bande, che rapinavano, derubavano e picchiavano senza motivo».
Cosa ha fatto una volta arrivato in Italia?
Sono arrivato in Italia, nel 1995 con un gommone in Puglia, poi sono andato in Abruzzo dove ho lavorato in campagna. A Milano invece ho fatto vendita porta a porta dopodiché ho lavorato come operaio in una ditta che produceva arredamenti per uffici. Ho fatto quel lavoro per sette anni. Nel frattempo, alla sera, studiavo inglese in una scuola privata, dove ho anche conosciuto mia moglie. Ho lavorato nel settore alberghiero per 12 anni, senza mai smettere di studiare altre lingue straniere per cui ho una passione. Ora parlo sei lingue tra cui il russo.
Il suo libro, di intitola C’era una volta un clandestino, quando ha smesso di esserlo?
«Ho smesso di essere un clandestino nel novembre del 1995, quando è uscita la sanatoria che dava la possibilità di regolarizzarsi se si avevano un lavoro e un alloggio. Avere un permesso di soggiorno in mano per me significava poter tornare in Albania senza preoccupazioni. Significava che potevo andare e vedere la mia famiglia. Significava che potevo muovermi in piena libertà. Ed infatti, quella libertà ha fatto sì che trovassi proprio a Milano mio fratello che era scomparso».
Una parte dei proventi del libro andrà alla Caritas. Questa organizzazione è stata importante nel suo primo periodo milanese, quando con suo fratello e i suoi amici avevate come casa un vagone alla stazione Centrale di Milano. Ha voglia di raccontarci un episodio di quel periodo?
«Sì, parte dei proventi andrà alla Caritas di Pane Quotidiano e ne sono molto orgoglioso. Ci tengo a restituire parte del grande sostegno ricevuto in quel periodo difficile, che ci ha aiutato a non prendere scorciatoie. All’epoca con mio fratello ci rivolgevamo al Pane Quotidiano, che ci dava un’abbondante colazione, e alla Caritas di Madre Teresa di Calcutta in zona Baggio, dove cenavamo. Ci hanno anche fornito delle coperte extra per sopportare meglio il freddo nel vagone dove dormivamo. Le suore di Madre Teresa si sono prese cura di mio fratello quando si è ammalato e ha preso la broncopolmonite. Mi commuovo ancora, quando ci penso».
Adesso tutta la famiglia Bida è in Italia, come è la vostra vita?
«Ci siamo integrati benissimo. Le mie sorelle e mio fratello sono sposati e hanno dei figli. Anche i miei genitori sono qua. Abitiamo tutti vicini. Abbiamo mescolato le nostre tradizioni con quelle italiane e inglesi. Lavorano tutti. Siamo molto uniti e in caso di bisogno ci aiutiamo a vicenda».
Sua moglie è inglese, i vostri figli parlano italiano, inglese e albanese. Cosa sogna per loro?
«Quando si parla di mia moglie e dei miei figli, mi sorride l’anima. Non so com’è la vita nelle altre famiglie, ma noi ci consideriamo la famiglia più felice del mondo. Potrei andare avanti a parlare per ore intere della mia famiglia. Non ci stanchiamo mai dell’altro, anzi, vogliamo stare sempre insieme. Mia moglie insegna inglese, privatamente, e catechismo in chiesa. Abbiamo due maschi, di otto e undici anni. Quello che voglio per loro è una vita serena e spensierata. Mi piacerebbe che anche i miei figli potessero avere la possibilità di inseguire i loro sogni, come ho fatto io».
Lei ha deciso di lasciare il lavoro per dedicarsi alla scrittura. Cosa vuole raccontare al di là della sua storia personale?
Vorrei dire agli immigrati che se vogliono essere amati da questo Paese, devono integrarsi: frequentare gli italiani il più possibile ed essere grati a questa nazione che li ospita e che gli dà da vivere. Voglio dire a tutti che comportandosi bene e lavorando si può arrivare lontano. Poi, se volete seguire i vostri sogni, fatelo, non rinunciate. Bisogna camminare con i piedi per terra, ma senza pensare solo ai soldi: ci sono altre cose molto più importanti nella vita.
Continuerà a scrivere ?
«Se avessi scritto tutta la mia storia in un solo libro, sarebbe stato di quasi mille pagine. In questo primo libro che ho iniziato tanti anni fa, ho raccontato solo due anni della mia esistenza. Ho anche scritto degli episodi comici accaduti nella mia vita di receptionist d’hotel, ne ho raccolti quasi trecento. Potrebbero essere materiale per un libro divertente. Perciò si, continuerò perché scrivere è la mia passione».