Engy Riead, 26 anni, egiziana, in Italia da 16, medico, membro di presidenza di Amsi, l’associazione dei camici bianchi in Italia, lavora in una struttura privata perché nel pubblico, non avendo la cittadinanza, non le è consentito. Nella sua condizione ci sono 19 mila medici che diventano 80 mila se si considerano i parasanitari: «Sbagliato considerarci stranieri, medici stranieri. Sono in Italia da così tanto tempo che ci vorrebbe un’altra parola per definirci».

Dottoressa Riead, come è finita in Italia la sua famiglia?

«Mio padre ci veniva già per lavoro dalla fine degli anni Ottanta. Già allora lavorava come cuoco. Cosa che fa anche adesso, cuoco della cucina romana più tradizionale. Alla fine ha deciso di riunire a Roma tutta la famiglia. Io sono arrivata da piccola, ho fatto in tempo ad iscrivermi alla terza elementare. A luglio dell’anno scorso mi sono laureata in Medicina».

È cittadina italiana?

«Ho un permesso di soggiorno. Alla mia famiglia non era mai venuto in mente di richiedere la cittadinanza. Alla fine l’hanno ottenuta. Con loro anche mia sorella in quanto minorenne. Io e mio fratello siccome abbiamo più di 18 anni la stiamo ancora aspettando. Io la aspetto dal 2013. In teoria una risposta avrei dovuto averla in quattro anni. Adesso dipende dal Ministero dell’Interno».

Lavora ma per questo non può lavorare nelle strutture pubbliche…

«Esatto. Mi sono laureata a luglio dell’anno scorso nei canonici sei anni. Medicina è una facoltà che richiede grande impegno. All’inizio nel mio corso eravamo in 200 ma ci siamo laureati in 20. Per noi stranieri è importante dimostrare quello che valiamo anche nello studio».

Sono medico in una struttura privata e sto aspettando di fare il test per la specializzazione in Medicina legale. Ma quello di poter lavorare in un ospedale pubblico, in un Policlinico universitario, rimane un grande sogno per tanti medici come me. Dopo tutti questi anni di studio, alla fine vorrei solo fare il lavoro che mi piace nel Paese che mi piace.

Anche perchè ci sono regioni come il Veneto che hanno bisogno di medici e sono pronti ad assumere 4000 stranieri…

«Contando i paramedici siamo in 80 mila in queste condizioni. C’è chi è nato in Italia e non ha la cittadinanza. Altri come me siamo qui sin da quando eravamo bambini. Chiamarci stranieri a questo punto è sbagliato. Gli stranieri sono quelli di cui non si sa nulla. Io sono qui da 16 anni. Voglio la cittadinanza. Poter votare. La mia vita è qui».

Ci torna in Egitto?

«Ogni anno in vacanza. Anche se negli ultimi tre anni per gli impegni universitari ho dovuto rinunciare. Là ho i miei cugini, le mie zie, le mie radici…».

Glielo avranno chiesto chissà quante volte: si sente più egiziana o più italiana?

«La mia generazione ha saputo prendere il meglio da entrambe le culture. Anche se alla fine sei straniera ovunque. In Egitto mi accusano di essere troppo diretta, troppo occidentale. Qui sono straniera, egiziana, anche se vivo in Italia da una vita. Ho il rispetto delle mie tradizioni e della cultura. Ma non porto il velo. Parlo italiano, ragiono come un’italiana, la mia cultura è italiana. In casa però si parla l’arabo. Mia madre ha voluto tenere viva la tradizione linguistica. Una cosa che è stata molto utile anche in ospedale, quando oltre al medico mi toccava fare da interprete davanti a pazienti che non parlavano italiano e lo capivano poco». 


Molti nuovi italiani quasi rinnegano le proprie origini pensando di essere più accettati…

«Non riguarda solo i giovani. Ci sono genitori che  preferiscono dare ai loro figli nomi italiani. Così si integrano meglio a scuola, pensano. In realtà è un altro modo per sottolineare la diversità, anche a casa. Altri, specialmente se sono in pubblico, evitano di parlare arabo. Io lo so che tutti questi atteggiamenti sono forme di difesa. Ma è una cosa che mi dispiace. Sapere due lingue, poter attingere a culture differenti, è come avere una marcia in più. Il bilinguismo ci aiuta».

Dall’Egitto all’Italia, è stata dura misurarsi con certi atteggiamenti in questo Paese?

«A dir la verità non mi sono accorta di niente per 16 anni. È bastato che rilasciassi un’intervista a “L’aria che tira” su La7 raccontando il problema di noi medici stranieri per scoprire il lato razzista di questo Paese. Sui social mi hanno attaccato in ogni modo con i soliti slogan: prima gli italiani…».

Probabilmente è solo questione di tempo prima che cambi la mentalità della gente. Prendersela con gli stranieri è il modo più facile per non guardare ai propri problemi. Io vorrei solo poter aiutare con il mio lavoro il Paese che amo e dove vivo. 

Dove si pensa in futuro?

«Il mio futuro è qui. Dipende solo dalla situazione economica. Molti giovani come me se ne vanno, preferiscono andare all’estero dove ci sono occasioni migliori. La mia generazione è figlia del mondo»