Nei primi giorni del 2019, sui media hanno trovato ampio spazio le dichiarazioni di alcuni sindaci contro il decreto sicurezza, entrato in vigore il 5 ottobre e convertito in legge due mesi dopo. Sull’onda dei sindaci “rivoltosi”, qualcuno ha tentato di configurare la loro opposizione come atto di “disobbedienza civile”, qualcun altro ha provato a far passare il messaggio secondo cui non è vero che la “legge è legge” e quand’è incostituzionale la si può pure disapplicare senza seguire i canali istituzionali per contrastarla; qualcun altro ha più correttamente cercato di far capire che «non spetta al sindaco decidere di disapplicare una legge», ma egli può «andare dall’autorità giudiziaria per chiedere di verificare l’applicabilità della legge. Se questa avrà dei dubbi, avvertirà la Corte Costituzionale» (Giovanni Maria Flick).
La questione non poteva evitare di coinvolgere l’Associazione nazionale dei comuni italiani (Anci), la cui attività è quella di rappresentare e tutelare gli interessi dei Comuni.
È il caso di darne conto non solo perché quanto avvenuto in quella sede non ha avuto sui media molta rilevanza, ma soprattutto perché può spiegare i motivi per i quali le proteste dei sindaci sul decreto in discorso sono risultate confuse, intempestive e incoerenti per più di un verso. Inoltre, dipanare la matassa degli eventi che si sono succeduti nei primi giorni dell’anno può aiutare a comprendere la soluzione emersa dall’incontro tra Anci e governo il 14 gennaio scorso. Quando, il 2 gennaio, hanno cominciato a diffondersi le manifestazioni di alcuni sindaci contro l’applicazione del decreto sicurezza, il presidente dell’Anci, Antonio Decaro ha dichiarato l’esigenza di «definire le modalità di attuazione e i necessari correttivi a una norma che così com’è non tutela i diritti delle persone», sottolineando che la commissione immigrazione dell’Anci, all’unanimità e indipendentemente dall’appartenenza politica dei singoli componenti, si era già «espressa negativamente sul provvedimento, ritenendo che i diritti umani non siano negoziabili». Ma il successivo 3 gennaio trenta sindaci hanno smentito Decaro sulla unitarietà del fronte contrario alla nuova disciplina sull’immigrazione con una lettera nella quale, contraddicendo “l’unanimità” da lui affermata, esprimevano il proprio favore nei riguardi del decreto Salvini. Più specificamente, i trenta sindaci si sono detti «convinti che il decreto sicurezza contenga norme principi giusti e condivisibili», considerato che «la gestione dell’immigrazione in questi ultimi anni ha aumentato il senso di insicurezza e il disagio sociale dei cittadini»; hanno affermato che sui comuni «si sono scaricati i costi gestionali, sociali e di sicurezza derivanti dal fenomeno con scelte dissennate e illogiche; hanno chiesto «che Anci non dia la sensazione di aderire tout court alle tesi del “partito dell’accoglienza” e che si faccia carico anche della sensibilità di tantissimi sindaci di città piccole, medie e grandi che guardano al decreto sicurezza come a un necessario, e da tempo auspicato, strumento normativo che ha favorito un cambio di paradigma rispetto alla questione dell’accoglienza»; infine, hanno invitato il presidente dell’Anci affinché l’associazione «non venga usata strumentalmente per sostenere le posizioni politiche di una parte del Paese». Lo stesso 3 gennaio il presidente dell’Anci ha replicato con un nuovo comunicato in cui, dopo aver sottolineato l’estraneità dell’Associazione allo scontro politico, ha rilevato che, non essendo «possibile sospendere i diritti basilari delle persone così come non è possibile sospendere unilateralmente l’ottemperanza di una legge», era necessario un incontro con il governo circa le ricadute della legge in discorso. A quel punto, mentre il presidente del Consiglio si diceva disponibile a ricevere i sindaci, è intervenuto pure il Viminale che, lo stesso 3 gennaio, ha fatto sapere tramite proprie “fonti” che la tanto contestata eliminazione dell’iscrizione all’anagrafe – la quale priverebbe gli immigrati di alcuni diritti, come lamentato dai sindaci – di fatto era stata decisa a seguito di un input pervenuto nel febbraio 2017 da parte dei sindaci stessi per il tramite dall’Anci. In particolare, il ministero dell’Interno rendeva noto che era stata l’Associazione a sostenere che «l’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo è un problema, soprattutto per i piccoli comuni, i cui uffici rischiano di essere sovraccaricati» e che il decreto Salvini «ha raccolto quel suggerimento».
Le opinioni discordi esistenti tra sindaci, nonché tra alcuni sindaci e l’Anci, e infine la circostanza resa nota dalle fonti del ministro dell’Interno, hanno determinato la necessità di un chiarimento nell’ambito dell’Associazione, avvenuto lo scorso 10 gennaio. In quella sede, Decaro ha «ricevuto il mandato pieno (…) di presentare tre approfondimenti tecnici per ridurre l’impatto sui territori dell’applicazione del provvedimento», mediante «una commissione interna rappresentativa delle diverse sensibilità politiche», e in particolare per «conservare l’accesso allo Sprar dei soggetti vulnerabili (…); l’applicazione di modalità uniformi per la presa in carico dei richiedenti asilo da parte delle Asl; il riconoscimento del diritto per i comuni di conoscere numero, età e sesso delle persone ospiti nei centri di accoglienza». A fronte di una legge già vigente e di un ministro dell’Interno intenzionato a non apportare modifiche alla legge stessa, gli unici mezzi per conciliare le opposte visioni non potevano che essere atti interpretativi delle disposizioni dubbie: e proprio questa è stata la soluzione trovata nel corso dell’incontro tra Anci e Presidente del Consiglio, il 14 gennaio scorso. A conclusione della riunione, infatti, Conte ha dichiarato che non gli è stato «rappresentato nessun dubbio di rango costituzionale», che le norme del decreto sicurezza non saranno modificate, ma alcune richieste avanzate dall’Associazione «sono state accettate» e verranno chiarite con integrazioni e circolari. A propria volta, Decaro ha esposto le proposte accolte: la prima è quella di «comunicare ai comuni, dunque ai sindaci, le persone che sono domiciliate all’interno dei centri di accoglienza», cosa che «prima avveniva in automatico con la residenza»; la seconda è la «omogeneizzazione sul territorio nazionale della presa in carico del servizio sanitario nazionale»; la terza è «l’attenzione alle categorie vulnerabili, per inserirle all’interno dello Sprar , il sistema di protezione per richiedenti asilo rifugiati».
Non resta, dunque, che attendere i preannunciati atti interpretativi per comprendere fino a che punto i problemi posti siano stati risolti.
Di certo, rimarranno insoluti altri nodi, più volte evidenziati: specificamente, il fatto che per effetto della nuova legge, vi saranno più irregolari – chi non potrà fruire di protezione umanitaria o non avrà il rinnovo del permesso di soggiorno o non potrà convertirlo – i quali, in assenza di rimpatrio, resteranno per le strade, potranno cadere nelle maglie della delinquenza e compiere reati, con conseguenti problemi delle comunità locali. Sarà, quindi, necessario continuare a seguire l’applicazione della legge e a registrare con attenzione quanto accade.