Alan Kurdi aveva 3 anni. Era un bambino siriano di etnia curda. Il suo corpo venne trovato sulla spiaggia di Bodrun in Turchia la mattina del 3 settembre 2015, il giorno dopo che si era rovesciato il gommone su cui era salito insieme alla sua famiglia e ad altri profughi che volevano raggiungere la Grecia.
Alan indossava una maglietta rossa e i pantaloncini blu. La fotografa turca Nilüfer Demir dell’agenzia DHA scattò una cinquantina di immagini di Alan e dei soccorritori. Quella foto, vista milioni di volte, è diventata uno dei simboli della tragedia dei migranti. Ancora oggi si discute dell’opportunità di pubblicarla e dell’utilizzo diventato virale che ne hanno fatto i media e i social media.
Fausto Colombo è professore ordinario di Teoria della comunicazione e dei media presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove dirige il Dipartimento di Scienze della comunicazione e dello spettacolo. Sulla foto di Alan ha scritto un importante libro uscito poco tempo fa, in cui racconta la vita della famiglia Kurdi, la storia di questa immagine e l’impatto che ha avuto sui media e sulle nostre coscienze. Il libro di Fausto Colombo si intitola Imago pietatis. Indagine su fotografia e compassione, edito da Vita e Pensiero alla fine del 2018.
Professor Fausto Colombo, perché ci ha colpito così tanto la foto del piccolo Alan Kurdi?
«Credo che la foto (o meglio le foto) di Alan abbia(no) almeno tre aspetti fondamentali. In primo luogo il loro soggetto, un bimbo, attiva quel senso di protezione e di difesa dell’infanzia che l’Occidente ha faticosamente messo a punto nei secoli come uno dei propri valori. In secondo luogo il fatto che il bambino sia vestito all’occidentale e abbia la pelle chiara permette una compiuta (non esotica) immedesimazione dei grandi pubblici europei e americani. Infine le foto sono quasi perfette nella loro drammaticità: dicono senza bisogno di parole».
Alla fine commuoverci per quella foto ci lava la coscienza e basta?
«Girare pagina e tornare alla nostra vita», come scrive nel suo libro…
«Ogni foto, come ogni testo, attiva un senso che si compie soltanto con il lettore. Molti rimproverano i fotoreporter di non cambiare il mondo attraverso le loro immagini che esibiscono il dolore delle vittime. Ma forse è ingiusto. Piuttosto, sta agli spettatori capire e fare qualcosa. Nel caso del complesso fenomeno delle migrazioni attraverso il Mediterraneo, per esempio, pare che la scelta sia oggi fra guardare alle storie individuali dei migranti, recuperando la loro dimensione di persone con le loro sofferenze, o credere agli stereotipi dell’invasione (quasi) aliena. Mi pare sia impossibile non scegliere. E in fondo si tratta di una scelta morale e politica».
Di Alan Kurdi sulla spiaggia di Bodrum ci sono tante foto. Solo Il Manifesto in Italia ha pubblicato quella in cui si vede di più il viso. Gli altri media hanno preferito pubblicare scatti meno forti. Voglia di non urtare troppo i lettori? È comprensibile?
«Gli scatti che inquadrano Alan sono, a mio parere, tutti molto forti. Credo che la scelta di non mostrare il volto sia dovuta al prevalere del rispetto nei confronti del piccolo. E che il Manifesto abbia voluto scioccare per provocare una risposta emotiva ancora più intensa nei lettori. Due scelte che rispondono a strategie differenti, e su cui si potrebbe discutere all’infinito».
C’è una stima anche approssimativa di quante volte sia stata pubblicata?
«No, che io sappia. Ma già dalla prima diffusione si parla di migliaia di riproduzioni, fra circolazione delle foto e diffusione di meme che la citano. Credo che la stima più sensata oggi sia in termini di milioni di views».
La foto è stata manipolata o interpretata più volte. L’artista Ai Weiwei si è sdraiato su una spiaggia come Alan, altri gli hanno messo le ali, tutto legittimo?
«La manipolazione o citazione artistica e la trasformazione dell’immagine di Alan in motivo non hanno certo finalità commerciale o di sfruttamento. Tuttavia ci si può interrogare sul rischio che l’eccessiva ripetizione ne smarrisca per strada l’efficacia. Ma si tratta di una questione molto controversa, che riguarda un po’ tutti i simboli e tutte le foto divenute storiche».
Un’ultima riflessione che esula un po’ dal suo libro. Il piccolo si chiamava Alan Kurdi. All’inizio per errore è stato chiamato Aylan o Alyan. Su Wikipedia ci sono ancora pure i nomi sbagliati. È scattato il luogo comune per cui se era siriano doveva avere un nome più esotico?
«C’è il forte sospetto che l’esotismo abbia giocato un qualche ruolo nella deformazione del nome di Alan. Tuttavia mi pare importante che oggi si parli del bambino con il suo vero nome, salvando la memoria non soltanto sua, ma anche del fenomeno di cui è divenuto simbolo, a costo della sua vita. Wikipedia, nelle sue pagine nelle lingue più importanti, riporta il nome correttamente, e così ormai la maggior parte dei giornali nelle commemorazioni».